creazione dell'umano

Credere oltre il quotidiano

di Bernardo Gianni

L’intervento di padre Bernardo al Festival delle Religioni 2015 

 

Credere oltre il quotidiano

Credo che una affermazione di questo tipo provochi radicalmente un monaco che, vorrei dire, al contrario, attraverso il quotidiano, ogni giorno cerca di cercare Dio, uso questa formula non per una banale amplificazione retorica, ma perché rimando in questo modo all’invito forte, che poi è anche l’oggetto specifico del discernimento, che colui che deve accompagnare un novizio alla professione monastica, secondo la regola stessa di San Benedetto, dovrà accertare, ovvero se questo candidato veramente “cerchi Dio”.

Questa dimensione dinamica, inquirente, domandante della fede, che San Benedetto ci chiede di accertare in coloro che desiderano diventare monaci, mi sembra sia un aspetto molto bello, forse anche poco noto, della qualità spirituale della vita monastica che dunque prende le mosse dal confessare una indigenza, un deficit, una mancanza, si cerca quel qualcuno o quel qualcosa che non abbiamo, altrimenti non sarebbe cercare, non sarebbe necessario cercare, e in questa dimensione, appunto lacunosa e deficitaria, sta proprio la bellezza, la dignità, la libertà della condizione umana nel suo scoprirsi interrogata dalla vita stessa, la quale potrà essere piena di bellissime prospettive, l’età giovanile questo ci può donare, una età meno giovanile ce le dona attraverso l’esperienza, ma sempre è una esperienza che dovrebbe interrogare.

Ecco, il monaco dunque è qualcuno che si mette alla ricerca di Dio, smosso da questo interrogativo. E’ questo interrogativo, io credo, che la vita che San Benedetto ci insegna a condurre, che è una vita, sì speciale per l’abito che portiamo, per i luoghi che abitiamo, ma è una vita che chiede solo una condizione, che probabilmente accomuna non pochi fra di noi qui presenti, cioè la mera condizione battesimale, cioè l’esperienza della morte e risurrezione di Cristo, quindi nessun statuto speciale, se non quello dell’ordinaria vita in Cristo, e questa dimensione non può non essere declinata attraverso il quotidiano.

E qui mi viene in mente un altro passaggio importante della Regola, e mi perdonerete se parto da questa prospettiva, anche perché credo sia l’unico contributo sensato che io possa darvi, raccontarvi la mia vita e i binari in cui essa si muove, un passaggio di San Benedetto, peraltro abbastanza noto e in un contesto tra l’altro molto, molto semplice e banale, Benedetto sta domandando ai suoi monaci nella Regola di non alzare troppo i prezzi dei prodotti che si vendono nel negozio monastico, sapete che questo vizio ce lo abbiamo da sempre, in ogni monastero c’è sempre il classico negozietto con le bottiglie di liquori, ricordini etc, e anche ai tempi di San Benedetto, però egli ci chiede di non alzare troppo i prezzi e aggiunge a questa indicazione banale quotidiana: «Ut in omnibus glorificetur Deus», e questo è un calco, una rielaborazione di un versetto della prima lettera di San Pietro: “affinché in tutto si glorifichi il Signore”.

Ecco, io credo che credere in Dio, sia questo tentativo di saldare un po’ queste due dimensioni, nell’ambito appunto della quotidianità, della ferialità, della semplicità delle cose di tutti i giorni, anzitutto la dimensione del cercare, dello scoprirsi indigenti, bisognosi di senso, bisognosi di speranza, bisognosi di riscoprire una possibile origine e una possibile destinazione ai nostri giorni, e prendere sul serio questa indigenza così da farla diventare davvero l’architrave smossa e dinamica del nostro vivere, del nostro, appunto, cercare. E tutto questo declinato in ogni cosa che noi possiamo scegliere di fare o di non fare, sapendo che, in omnibus, in tutto, noi potenzialmente possiamo davvero glorificare il Signore. In questa dimensione della gloria si tratta di una grande azione deidolatrante che la Scrittura ci insegna, come in realtà ci insegna a non escludere Dio, ovvero contrarre un po’ i confini del mio io per dare spazio a un altro che sia o meno con la A maiuscola è comunque un altro, che relativizza il mio io, e questo altro va glorificato, per San Benedetto, non per quello che io riesco a fare, non per quello che io posso guadagnare, ma è questa alterità che circoscrive così tutto quello che io sono, a favore di una ulteriorità che io glorificherò, quanto meno non escludendola e cercando di interpretare questa alterità come ragione della vita e ragione amorosa della vita.

Ragione amorosa della vita

Perché questa ricerca in fondo segnala che fra me cercante e colui cercato, può esserci un qualcosa di analogico, che permetta questa ricerca, che propizi questo desiderio di reciprocità, il monaco non la esclude, attraverso quella sublime traccia di amore affidabile e credibile, perché amore crocifisso dunque provato dalla passione, non dalla mia verbosità, ma dalla passione di un amore suggellato dal sangue, questa ricerca appare al monaco così affascinante, così seducente, da potergli dedicare la vita, ma in questo diventa una icona simbolica di ogni battezzato che a questa stessa ricerca è invitato e vorrei dire di ogni vivente, perché anche il più risoluto pensiero che esclude Dio non credo possa dispensarsi dalla domanda, quella che Norberto Bobbio chiamava la ragione umiliata  dalla consapevolezza dei suoi limiti, egli poi diceva, non riesco ad aderire a nessuna fede, ma non per questo mi posso definire ateo, mi ritengo un uomo dalla ragione umiliata e in questa percezione del limite, del bisogno e della fragilità, scopro la grazia dell’essere partecipe di una qualche religiosità -egli diceva non religione, ma religiosità- ed anche questa religiosità merita, per così dire, il Festival che Francesca, con grande sapienza e determinazione, da un anno a questa parte ci dona e dona a tutta Firenze, e non solo.

È chiaro che il quotidiano diventa il luogo di una esperienza di ricerca del Signore resa possibile dal fatto che, nella prospettiva che posso dire, con quella fraterna amicizia che lega finalmente in pienezza, la Chiesa alla comunità credente ebraica, è perché il Signore ha visitato il nostro quotidiano, ha lasciato tracce di sé, desiderando che l’uomo non restasse privo di una interlocuzione col suo mistero che rendesse così possibile non solo la domanda, ma la possibilità stessa della ricerca, appunto una ricerca sulla base di alcuni fondamentali indizi che il Signore lascia perché l’uomo abbia un cammino, e lo abbia orientato verso l’ulteriorità che Lui è, e naturalmente l’indizio, per così dire, è il dono della Parola. Qui in qualche misura, e spero che la mia non sia una interpretazione che mortifica, tradisca, stravolga o peggio ancora offenda la nobilissima riflessione e anche l’osservanza, e l’amore per l’osservanza, che si respirava tutti dalle parole del professore, l’ascolto, che rende possibile l’accoglienza di quel dono straordinario con cui Dio, direbbero i Padri antichi della Chiesa, si abbassa verso l’uomo “syncatabasis”, dicono i Padri orientali in una espressione greca citata dalla Dei Verbum, dalla costituzione conciliare Dei verbum, dove appunto si coglie come Dio si inginocchia verso l’uomo col dono della Parola perché l’uomo appunto, convocato ad un dialogo con Lui, riscopra, o scopra del tutto, la sua dignità creaturale che la distanza, pure abissale, che c’è fra lui e Dio, fra il suo quotidiano e l’eternità di Dio, non è una distanza  incolmabile, ma la Parola la rende attraversabile.

Ma a me qui interessa. forse anche per il contesto speciale in cui siamo, è vero che è un cenacolo di un convento fra i più belli del mondo, mi immaginavo con i miei nove monaci a mangiare in uno spazio così grandioso, giusto per cogliere quale straordinaria civiltà monastica e conventuale sia stata la Firenze dell’umanesimo, che noi tante volte liquidiamo come in fondo un anticipo dell’illuminismo settecentesco, ebbene, in questo contesto però io sento il bisogno di risalire, vorrei dire ai radicali, ai fondamenti dell’atto credente, e credo che le parole importanti che il professore ci ricordava, questa declinazione straordinariamente fedele, osservante appunto, alla Parola del Signore, una osservanza tra l’altro che ha creato una sorta di patria, una sorta di geografia invisibile per coloro che, tutti noi sappiamo, sono stati dispersi nel mondo per volontà di altri, questa esperienza è quella appunto dell’ascolto, che è un tratto fondamentale del credere, Paolo lo dice con grande chiarezza ai Romani, la fede nasce dall’ascolto e l’ascolto è in fondo una esperienza in cui ci riconosciamo finalmente indigenti di quella Parola che, finalmente accolta, orienta la nostra esistenza, ci fa scoprire di esserci, perché se qualcuno ci chiama, per qualcuno noi siamo! Per qualcuno noi siamo! Abbiamo una sorta di cittadinanza nei riguardi di un qualcuno che ci tende prima la mano, viene a sapere il nostro nome e conosciutolo, ci appella.

Ecco, allora qui è veramente la svolta che è di heideggeriana memoria, mi permetterà Francesca che è filosofa di professione se mi avventuro un pò, così barcollante, in ambiti che non sono i miei, ma è  la grande svolta heideggeriana, dalla domanda all’ascolto e anche questa è una parola chiave dell’esperienza monastica, è la prima parola della Regola di San Benedetto che non fa che riecheggiare l’incessante appello che da un capo all’altro della Scrittura,  fra il Primo e il Secondo Testamento -perché anche io non amo affatto qualificarlo come antico testamento, se devo credere in due, fra il Primo e il Secondo Testamento, è appunto l’invito ad ascoltare;  e guardate è veramente credente quel qualcuno che, torno a dirlo con forza, non esclude la possibilità che altro esista da sè e per questo altro è disposto a tacere, pur di non perderne neppure un possibile bisbiglìo col quale finalmente sentirci non soli in questa realtà.

Laddove non arriva, ed è un limite molto consueto, il mio povero pensiero, può arrivare la forza di scavo e di essenzialità del poeta e qui è la poesia straordinaria di Antonia Pozzi:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

Qui è davvero il parossismo poetico, come si fa ad ascoltare l’orzo che sta maturando? Impossibile. Però guardate, questo è lo sguardo poetico che sa ascoltare, arriva a intuire, a percepire a immaginare, un possibile suono di un evento quotidiano, l’orzo o qualsiasi altra pianta che ci matura intorno alla nostra casa o sui nostri terrazzi, come un evento rivelativo che altro accade al di fuori di me, e che questa alterità che accade, sia evento che può dipendere da un altro ancora. Ecco credo che riscoprire questa dimensione, vorrei dire mistica del quotidiano, come la più nobile tradizione spirituale anche del cristianesimo ci insegna, dalle estasi di Santa Teresa mentre friggeva le uova in cucina nel suo carmelo, può sembrare offensivo dir questo, ma è per farvi capire come tutto si tenga, i due versetti che citava il professore, ci restituisce ancora una volta ad un rapporto interrogante con la realtà in cui nessuna consapevolezza o competenza tecnico scientifica ci dispensa dall’incessante domandare, dall’incessante cercare, e vorrei dire più ancora dall’indispensabile ascoltare.

Abbiamo avuto la fortuna di ospitare l’altra sera a San Miniato, disturbando un po’ il Festival delle Religioni e facendo un po’ di piccola concorrenza, ma approfittando del fatto che erano qui a Firenze, due sociologi di grande risonanza, almeno nella vita culturale accademica del nostro paese, cioè Mauro Magatti che avete ascoltato e incontrato ieri con Zygmunt Bauman, e la sua sposa, Chiara Giaccardi, i quali hanno scritto di recente un libro sulla generatività, edito da Feltrinelli, un libro assolutamente raccomandabile “Generativi di tutto il mondo, unitevi” nel quale la libertà è sottoposta ad una serrata critica, almeno quella visione un po’ ingenua della libertà che, come ci diceva Chiara l’altra sera a San Miniato, tante volte tentiamo di geometrizzare, in una formula tanto diffusa, quanto alla fine in realtà estremamente fragile e opinabile: la mia libertà finisce dove inizia la tua, come se, in un certo senso, fosse possibile una sinfonia di libertà senza pestarci i piedi.

In realtà appunto, una esperienza radicale come quella pure oggettiva della libertà, che per noi in ascolto della Scrittura suona davvero come ciò che più ci assimila al Signore, nella sua libertà appunto di amare e non amare, creare e non creare etc , è tutt’altro che così facilmente geometrizzabile, è una esperienza esistenziale in cui compiamo noi stessi, in cui siamo veramente noi stessi, ma nello stesso tempo corriamo il rischio di interferire in modo infecondo e addirittura oppressivo su altrettante libertà di altrettante persone. Allora, la categoria che i nostri amici hanno inventato è quella, molto bella, che rimanda appunto ad una dimensione amorosa, feconda del vivere che è la generatività, la libertà quando è generativa, quando cioè sa deporsi per fare spazio ad altro e ad altri, è veramente la libertà che rende l’uomo consapevole della sua intrinseca necessità di vivere, essere, e restare nella relazione, come spazio di dialogo, come spazio di crescita, come verità della nostra origine e della nostra indigenza.

E allora tutto questo è per dire che, in effetti, il Vangelo un poco ci educa a diffidare di quando la norma in sé appare come l’unico criterio perché la nostra libertà diventi esperienza generativa di amore, e in effetti la polemica serrata di Gesù sul sabato questo ci invita a fare, cioè ad esercitare sempre questa arte difficile del discernimento, attraverso il quale siamo rimandati, appunto, ad una norma astratta che dobbiamo saper interpretare nella realtà, e vorrei dire del quotidiano, attraversandolo ancora una volta, perché il quotidiano, mortificato e gessificato dalla norma, non diventi esperienza di morte anziché di vita. Allora questa prospettiva di libertà generativa, il Signore Gesù ci educa a vagliarla attraverso questa esperienza, apparentemente generica, ma in realtà estremamente feconda che è l’amore.

L’amore veramente vivifica come Spirito la legge, perché è la situazione in cui sentiamo quando la legge può diventare il comodo trincerarsi nello spazio geometrico di un diritto, se non di una pretesa, e quando invece, nonostante il diritto, mi domandi, attraverso l’appello del cuore a rinunciare, a deporre me stesso per dare spazio all’altro.

Come intuite cogliamo questa dimensione di discernimento, che è una parola peraltro forte della tradizione monastica, guai se l’abate si illude di governare la comunità con la sola Regola, senza il cammino di discernimento, di ascolto di tutta la comunità, iniziando, dice San Benedetto, dal più giovane, perché lo Spirito spesso detta le cose più audaci, scrive Benedetto, ai più giovani, fermento della novità. Anche questa è generatività. Allora, in questa situazione, che potremmo qualificare morale in situazione, ecco che per noi la libertà appare davvero come la grande sfida, la grande responsabilità, il grande adempimento dell’umano.

E non c’è nessuna parola scritta ed ereditata che mi sottragga, per così dire, a questo sforzo, a questa fatica, un detto dei Padri dice e racconta di quando quel monaco che possedeva ormai soltanto una tunica e il Vangelo, incontrando un povero, va, si priva del Vangelo e con quello che guadagna acquista un pezzo di pane per quel povero, torna in monastero e l’abate lo rimprovera e il monaco risponde, padre, ma per essere fedele fino in fondo al Vangelo, io l’ho dovuto buttar via per avere un soldo e comprare il pane. Capite questa dimensione che non è relativismo, ma è sempre questa fatica dellaDiscretio, in vista di una libertà che l’amore, quando è davvero tale, sa generare, perché l’amore in questo senso ci fa scoprire come esiste l’infinito fra me e te che nessun codice potrà mai cristallizzare, nessun interesse piegare e mortificare, a tutto favore di quella gratuità che vorremmo anche finalmente restituisse ossigeno, libertà, vorrei dire anche un pò di creatività nelle nostre relazioni. Questo non per mandare ovviamente in pensione, sia mai, non fraintendetemi, tutto anche il necessario apparato giuridico, anche della stessa vita della Chiesa, sia chiaro, ma è ovvio che tutto ha una sorta di architettura in cui il vertice è rappresentato da questo evento inaudito, per cui Dio non basta a se stesso, e pone altro da sé con la creazione.

Mi permetterete, io sento tutte le volte, ma non per guadagnarmi l’applauso, anzi vi prego di non farlo perché massaggiate esageratamente il mio io e un monaco più lo tiene a stecchetto il suo io e più è monaco, io ve le leggo queste poesie perché semplicemente son belle e so che lì veramente, dove finisce la mia parola,  inizia la bellezza della poesia. Questa è di Margherita Guidacci e credo ci ritroviate una sintesi bella di quelle cose che in modo confuso vi ho detto:

Il mio amore che nasce
in te, non finisce
in te. Sei la mia porta d’amore
attraverso cui passo
incontro all’universo, tendendo a tutto le braccia. 

Sei la mia libertà, che oltre la diga spezzata
riversa le acque trionfanti –
ed apre tutte le gabbia, le vuota in un attimo,
empiendo il cielo di migliaia di uccelli
che non si lasceranno mai più imprigionare. 

Questo per me è l’amore liberante, perché generativo e radicato nello sguardo che, prima di puntare a se stesso, punta all’altro.

Proprio perché l’atto credente, l’esperienza credente è irruzione nel nostro cuore in ascolto di una alterità, che la rivelazione consegna per noi con i tratti dinamici e interloquenti della Parola, per arrivare ovviamente nella prospettiva cristiana, al volto del Signore Gesù, ma essa appunto è irruzione di una alterità, è ovvio che questa riserva di mistero che si fa strada nel nostro cuore, che si intuisce partorita dalla storia, partorita in qualche misura dalla stessa natura, partorita dalla tua tensione desiderativa di pienezza, è chiaro che questa riserva di mistero, come la custodisci nel tuo cuore, non puoi non custodirla nel cuore di chiunque altro.

Vorrei dire al di là delle fattezze, dei nomi, dei contenuti, dei riti con cui essa si è fatta strada e si lascia incontrare dall’altro che con te condivide questa interpretazione, che riserva nella vita il mistero, e direi la vita nel mistero. E credo che questa dimensione ospitante sia, per così dire, la radice di una dimensione, non solo dialogante, ma vorrei dire autenticamente premurosa, perché nella città altre fedi, altre storie, altre culture, altri volti abbiano i loro spazi in cui celebrare questo mistero.

Mi meravigliò lo scalpore, per così dire, forse la parola è esagerata, ma in qualche misura forse anche un po’ la meraviglia con cui fu notato il mio appello un anno fa nella moschea di Firenze, qui vicino a Santa Croce, perché questa città donasse, e fosse in grado di donare, alla comunità islamica che prega, un ambiente dignitoso di bellezza per la loro preghiera. Mi sorprese perché non credevo, e non mi pareva di dire nulla di straordinario, e mi permetterete se un anno dopo torno a citarmi, e lo faccio adesso in un contesto in cui tante voci si alzano per aumentare il senso di diffidenza, di paura, di autodifesa nei confronti di questo e di quell’altro credo che sfugge alla nostra storia, alla nostra tradizione, ecco, io credo che davvero sia un tratto della religiosità di cui parlava Bobbio, di questa intelligenza umile che anzitutto sa porsi delle domande, e sente la necessità di cercare la possibilità di dare a tutti dei luoghi, e possibilmente della bellezza, in cui celebrare la gratuità del mistero dell’incontro fra il nostro cuore e l’alterità.

Questo come premessa.  E devo dirvi che ecco, a questo tipo di martìri, perché sono dei martìri di fatto, la nostra coscienza critica deve essere ogni giorno sempre più consapevole, memore, partecipe, grata, perché qui è in gioco l’umano, carissimi amici e amiche, è in gioco l’umano!

Anche qui io ho meritato qualche critica, e scusate se mi cito di nuovo addosso, ma in un contesto pure importante, come credo sia stato il dibattito promosso dal Corriere Fiorentino, in preparazione al Convegno sull’Umanesimo, ho detto -certo in una dimensione un po’ provocatoria che forse può sembrare stonata detta con un abito monastico- che forse oggi è ancora più importante tornare a credere nell’uomo prima ancora che in Dio.

Ma io qui oso ridirla questa frase, anche se mi costasse la carriera, perché veramente, guardate che quando la nostra umanità si afferma solo e soltanto a prezzo della vita e delle idee altrui, viene meno questa intuizione fortissima che pure la tradizione cristiana ci insegna, l’uomo è relazione! A immagine e somiglianza di Dio anzitutto, e poi attraverso, e nonostante la differenza sessuale –maschio e femmina li creò– la fraternità e tutte le possibili relazioni: questo è l’uomo!

Quindi quando si attenta alla relazione per paura, per ignoranza, per potere, per fanatismo, per danaro, si attenta all’umano.

E credo che questo sia un comune denominatore su cui non possiamo abbassare la guardia, essere tutti estremamente vigilanti, questo il nostro contributo spirituale, che si ricollega anche alla intuizione forte che il professore ci consegnava, è vero, la santità è evento vorrei dire, per usare una parola cara alla nostra tradizione, è un evento cittadino.

Lasciatemi usare questa parola. Non solo perché il paradiso, per come ce lo prospetta l’Apocalisse, è una città, e non la nuvoletta singola tipo pubblicità Lavazza dove io mi ritrovo finalmente ad affermare me stesso, navigando nell’etere, ma è una città, luogo di socialità, di relazione, finalmente santo, perché nella misura di quella giustizia che abbiamo cercato, e dovremmo cercare, in questo mondo, la giustizia del Regno, la prima cosa da cercare, dice il Vangelo e tutto il resto ci sarà aggiunto.

Quanta attenzione c’è nella qualità giusta delle nostre relazioni, del lasciare spazio all’altro, di quella sinfonia dissonante e concordante che Chiara Giaccardi e Mauro Magatti ci ricordavano l’altra sera essere la vera frastagliata geometria delle libertà che tentano di vivere insieme?

E allora vedete che è un cammino molto impegnativo, difficile, ma la bellezza dello skyline fiorentino accorda perfettamente la splendida cupola della Sinagoga alle altre cupole delle nostre Chiese e possibilmente, ma perché no, a un minareto, e deve essere il simbolo di quella nuova Gerusalemme che non ci stanchiamo di invocare, se vogliamo qualificare l’umano come esperienza di relazione e di convivenza, che sa contrarre la paura con l’umile forza dell’amore.

Rispondendo alle domande, sulla prima questione, quella su San Paolo, che è un tema enorme, mi dia la possibilità anche di riaccostarmi un po’ alle cose che ci diceva il professore, non è che Paolo bandisca le regole, Paolo antepone all’esperienza della obbedienza alla legge la scoperta che c’è un evento che supera radicalmente la facoltà che l’uomo ha di obbedire alla legge stessa, e questo evento è la grazia, che si è manifestata concretamente in Gesù Cristo, che la fede nel suo Vangelo ti fa incontrare come colui che ti salva, a prescindere dalla tua capacità o meno di obbedire alla legge. E qui viene in gioco così questa dimensione oggettiva su cui si appunta tantissimo l’esperienza paolina, e in realtà l’esperienza di noi tutti, e quante volte ci scopriamo deficitari rispetto a quello che la legge ci chiede e allora in quel caso l’uomo è perso, allora l’evento grazia, l’evento del Signore Gesù, mostra questo primato di gratuità, di misericordia, di tenerezza, di Dio che come si è chinato su Paolo, nonostante fosse quello che era, si può inchinare anche sulle mie di miserie.

E questo è un aspetto, ma naturalmente ecco Paolo, anteposto a questa esperienza della grazia, eccome se non lascia delle regole alle sue comunità, perché poi è vero che questa esperienza di grazia nel quotidiano si declina custodendola come una esperienza di fedeltà a ciò che il Vangelo ci domanda.

L’esperienza della responsabilità bene si accorda, credo, come la scoperta di trovarci in un dialogo con Dio, un dialogo appunto in cui se Lui è la Parola, a me, per così dire, la risposta, che siano le stelle del Profeta Baruc che, come creazione obbediente e meravigliosa dicono eccomi al Signore, che sia il mio cuore, pur fra mille incertezze e resistenze che dice eccomi!, tutta la realtà appare, a fronte del primato di Dio, come esperienza di responsabilità e quindi è tanto più importante l’ascolto, quanto la possibilità che noi abbiamo così di non mancare all’appuntamento che rende grande l’uomo, per rispondere alla domanda del signore dai tanti, anche se bianchi capelli, ma glieli invidio tutti! E cioè il fatto appunto che noi, saremo piccolini quanto si vuole, insignificanti, ma in questa prospettiva che accomuna me e il professore, appunto quella del Dio che dona la Parola all’uomo, siamo invitati a una relazione, e in questo senso è affidabile perché il Signore poteva anche fare a meno di parlare all’uomo, eppure l’ha fatto, e allora in questa dimensione interloquente noi ci stiamo, ci buttiamo, ci giochiamo la nostra esistenza, aspettandoci a nostra volta di essere da Lui ascoltati, questa è la vera, pensateci bene, ragione della preghiera, essere esauditi o meno è secondario, ci ricordava un cardinale martire del XX secolo, la cosa essenziale è l’intuizione che, comunque, qualcuno presta attenzione alle nostre parole, non siamo soli, piccoli o grandi che siamo, peccatori o meno, santi o non santi, siamo ascoltati.

Infine  anche io non posso non rispondere alla dimensione del trovare: Agostino ce lo dice, si cerca perché qualcosa in fondo si è già trovato, ma proprio perché è una alterità infinitamente più grande “si comprehendis non est deus”, dice Agostino, se lo comprendi non può essere Dio, perché esonda rispetto alla tua capacità di comprensione, ecco che tu trovi e nello stesso tempo ti rimetti a cercare, ma un pochino trovi, perdinci, venti anni in monastero, se non mi avessero fatto trovar nulla!


Trascrizione a cura di Grazia Collini

Fotografia di Mariangela Montanari

Fonte: http://www.sanminiatoalmonte.it/node/394

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