creazione dell'umano

I volti del figlio

di Adriano Fabris

© JOSE FUSTE RAGA / CORBIS
La questione antropologica è da anni al centro della riflessione della Chiesa. Dal Messaggero di Sant’Antotnio, un ciclo di contributi per riflettere su quel «nuovo umanesimo» che trova in Gesù Cristo un modello per ciascuno di noi.

Viviamo oggi tempi difficili. Non solo per la crisi economica che sta cambiando profondamente le nostre abitudini. La crisi è infatti, prima che economica, crisi culturale. È l’espressione di un generale disorientamento. Non sappiamo bene in che direzione muoverci, dove andare, che cosa è meglio fare: noi, ma soprattutto e più ancora, i nostri ragazzi. E senza una direzione ben precisa è difficile lottare, è difficile sperare, è difficile cercare una via d’uscita.

La via d’uscita si trova solo se abbandoniamo il disincanto generalizzato che molto spesso ci prende: nei confronti degli altri, ma prima ancora di noi stessi. Soprattutto in quest’ultimo caso dobbiamo recuperare tutte le potenzialità che ci caratterizzano e ci sono proprie. Solo così saremo in grado di recuperare la fiducia in noi stessi. Ma la fiducia non è un’emozione che va e viene. Essa si fonda sulla consapevolezza di quello che siamo e di ciò che possiamo essere.

La questione centrale

Ecco la questione: siamo disorientati oggi, siamo in crisi anzitutto riguardo a noi stessi perché non sappiamo bene chi siamo. E dunque non sappiamo neppure, in molti casi, ciò che è bene per noi. Anche come popolo, anche in quanto collettività. Deleghiamo, aspettiamo che siano altri a decidere per noi: e non sempre ciò accade con esiti confortanti.

Appunto: chi siamo noi? Chi siamo noi, nella particolare situazione che stiamo vivendo? Soprattutto, più in generale, chi siamo noi proprio in quanto esseri umani? E come dobbiamo comportarci per realizzarci nel modo migliore, nella maniera più piena, per il bene nostro e di tutti?

Mai come oggi, forse, queste domande chiedono urgentemente una risposta. E tuttavia mai come oggi pare che vi sia una tendenza generalizzata a non provare a darla. Quando parliamo dell’essere umano, infatti, tendiamo spesso a eliminare tutte le distinzioni che consentono di definirne la specificità. In effetti – si sente dire da molte parti – siamo come tutti gli altri animali, visto che dagli animali ci siamo evoluti. Siamo, cioè, animali guidati da istinti, preda di bisogni, volti al perseguimento di un’utilità ben precisa.

Ma se consideriamo con attenzione i nostri processi fisici e mentali – sentiamo dire da altri versanti – possiamo renderci conto che, sia noi che gli animali, non siamo poi molto differenti da un robot, da un apparato meccanico, da una cosa. Funzioniamo allo stesso modo, parti del nostro organismo possono essere cambiate se non vanno più, i nostri stessi processi cerebrali possono essere spiegati e su di essi siamo in grado d’incidere medicalmente. E ancor più lo saremo in futuro.

Troppe differenze nessuna differenza

Pare dunque venir meno oggi la distinzione tra umano e animale, e tra umano e meccanico. Ma anche per quanto riguarda quell’idea di umanità che abbiamo sempre avuto sono messe in discussione differenze che in passato sembravano naturali. La distinzione fra i sessi, ad esempio, viene trasformata in una differenza puramente culturale fra vari “generi”. Allo stesso modo vengono annullate, tecnicamente e medicalmente, le specificità che sono proprie delle varie fasi della vita, le quali vengono ricondotte a un unico modello falsamente giovanile.

Pare dunque che abbiamo paura di rimarcare differenze e specificità anche quando esse riguardano l’essere umano. Pare che sia meglio arrenderci all’indifferenza. E questo paradossalmente accade proprio quando, nel mondo, ciascuno – collettività, gruppi, individui – tende invece a rimarcare la propria differenza dagli altri e manifesta il diritto a rivendicarla pubblicamente: sia essa religiosa, etnica, oppure sessuale. Fino alla parcellizzazione estrema. Fino all’indifferenza che, paradossalmente, è generata dal proliferare di tutte le possibili differenze.

Se le cose stanno così, si comprende il motivo del nostro disorientamento riguardo a noi stessi, con tutto ciò che comporta. E allora diventa indispensabile tornare a riflettere su quello che siamo e che possiamo essere. Diventa necessario riproporre le domande che formulavo prima.

Nella Chiesa cattolica è in corso da tempo una riflessione su questi temi. La cosiddetta “questione antropologica” – la ripresa dell’interrogativo su chi siamo noi e sul vero significato del nostro essere – è stata posta al centro, nei decenni passati, di un’attenzione ripetuta, sia teorica che pratica. Nell’immediato futuro, poi, una tappa importante di questo percorso di approfondimento sarà costituita dalla celebrazione a Firenze, nel novembre 2015, del quinto Convegno nazionale della Chiesa Cattolica Italiana, dedicato appunto al tema del “nuovo umanesimo”. Perché – nella situazione di oggi, all’epoca della crisi culturale di cui parlavo – è necessario pensare a ciò che siamo e, soprattutto, a ciò che possiamo essere secondo schemi che siano davvero nuovi: nuovi rispetto al passato; nuovi nei confronti di molte soluzioni riduttive e unilaterali che vengono accolte, spesso in maniera acritica, nel tempo in cui viviamo.

Non si tratta però – diciamolo chiaramente – di elaborare l’ennesima teoria sull’essere umano, svilupparla in maniera adeguata e sottoporla al pubblico dibattito. Di una teoria in più non abbiamo affatto bisogno, se essa non è in grado di offrirci una prospettiva per la quale valga la pena di agire: se essa, cioè, non è in grado di dirci che cosa è bene per noi e di motivarci a perseguirlo. Siamo stanchi di teorie, più o meno veicolate dai media, che prendono per verità un’ideologia di comodo. Abbiamo bisogno di essere coinvolti concretamente a fare ciò che sappiamo essere bene per noi: per tutti noi. E appunto a questo scopo possiamo riferirci a un esempio, a un modello di essere umano che è in grado di far emergere tutte le possibilità buone che dell’essere umano sono proprie.

Dalle Beatitudini ai volti del figlio

Per i cristiani questo modello è Gesù. E non è un caso che il Convegno ecclesiale di Firenze avrà proprio come titolo: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Così come non è stato un caso che, nel corso del 2014 e appunto in vista di questo Convegno, il “Messaggero di Sant’Antonio” abbia dedicato una serie di articoli, a firma di Chiara Giaccardi, Simone Morandini e di chi scrive, appunto al Discorso della Montagna, come esemplificazione, concreta e buona, dell’agire umano.

Nei prossimi mesi saranno proposti sulla stessa linea altri contributi da parte degli stessi autori. Ma questa volta riguarderanno propriamente la figura di Gesù. Si cercherà, certamente, di recuperare il significato di parole fondamentali il cui significato profondo sembra talvolta essere stato dimenticato. E dunque parleremo di amore, pace, misericordia, capacità di dire di no, generosità, libertà, fraternità, povertà, sapienza, felicità. E tuttavia lo faremo vedendo in che modo questi comportamenti sono divenuti modi di essere di una persona, sono stati il frutto di una scelta per il bene, si sono fatti contagiosi nei confronti degli altri. In una parola: si sono presentati come paradigma dell’umano.

In questo modo, dunque, cercheremo di dare risposta alle domande che ci ponevamo all’inizio. Chi siamo noi? Come possiamo evadere dalla situazione senza via d’uscita che sembra caratterizzare il nostro tempo? E come possiamo farlo in modo tale che le nostre scelte risultino motivate e coinvolgenti?

Ciò che cercheranno di suggerire i contributi di Chiara Giaccardi, Simone Morandini e di chi scrive, quali si susseguiranno nei prossimi mesi su queste pagine, è che il riferimento alle parole e alle azioni di Gesù può darci un aiuto, un aiuto concreto, a rispondere nei fatti a tali quesiti. Di più. Che ciò che ci viene proposto dalle parole e dalle azioni di Gesù è la messa in opera di una scelta di bontà, giustificata come tale, che non vale solo per i cristiani, ma che ha senso per tutti coloro i quali vogliono vivere pienamente la loro umanità. E che, appunto per questo, possono realizzarsi felicemente in quello che sono.

dal Messaggero di Sant’Antonio, gennaio 2015

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