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Disabilità: per nuovo umanesimo inclusivo

di Rosa Maria Foti

1. La disabilità irrompe in una famiglia: l’accoglienza  della disabilità nella persona e nella società

Nel libro di Giobbe si trova una durissima espressione: “perché due ginocchia mi hanno accolto e perché due mammelle per allattarmi” (Gb 3,12). Sia che si nasca disabili, sia che lo si diventi nel corso della vita è sempre un momento tragico, un momento di rifiuto della vita; per i famigliari del disabile è la morte dei progetti che si erano fatti per quel bambino che si aspettava con trepidazione, è la morte dei propri progetti di vita, nel caso di adulti. È uno sconvolgimento sia per il disabile che per il suo nucleo familiare.

In nessun caso la vita riprende come prima perché a differenza della malattia una disabilità è per sempre. Per questo è molto rischioso mettere nello stesso calderone disabili e malati. I malati necessitano di cure per lo più sanitarie, ma non occorre imparare a parlare una lingua diversa, come accade con i sordi, o utilizzare il Braille, come accade con i ciechi, per comunicare con loro. La persona con disabilità ha bisogno di una comunità inclusiva che impari ad abbattere le barriere mentali. Accogliere una persona nella sua diversità significa non volere a tutti i costi che sia “normale… come gli altri, ma che possa essere quanto più possibile, ed è sempre possibile anche nei casi più gravi, soggetto e attore della propria vita, a partire dalle sue potenzialità non dal suo deficit.

Quando ci si scontra con la disabilità ci si lascia accecare da essa e non si riesce a vedere la persona che è sì la sua disabilità, ma anche la sua preziosa maniera di essere che in nessun altra persona al mondo potrà trovarsi. E così tra un poverino esclamato con pietà e una omissione di accoglienza, si entra nel triste dinamismo della profezia autoavverante. La persona con disabilità e la sua famiglia, influenzati dalla mentalità della nostra società, alterano inconsapevolmente il loro comportamento fino a diventare realmente handicappati.

Nelle nostre comunità ordinariamente è difficile trovare persone disabili che fanno parte della comunità, anche se meno che in passato. Questo è molto triste. Potrebbe sembrare che anche la comunità cristiana, pratichi per certi versi degli aborti cosìddetti “aborti eugenetici”. Come giudicare quei genitori che in un contesto così poco inclusivo eventualmente scelgano con dolore di abortire il figlio che sembra presentare delle anomalie? La mentalità comune vuole i disabili relegati in gruppi a parte o posteggiati in gruppi apparentemente inclusivi . Quale genitore, con tali presupposti, può desiderare una vita di questo tipo per il figlio.

2. «Chi ha peccato, lui o la sua famiglia?». Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (cf Gv 9, 3). La Disabilità una sfiga o una sfida?

È difficile scrollarsi di dosso l’idea che un evento doloroso nella nostra vita è una punizione. Questo pregiudizio finisce per tarpare le ali di chi vive una disabilità.

Come, avendo dimestichezza con la Parola di Dio e con pagine commoventi come quella del figliol prodigo come possiamo ancora lasciarci influenzare dalla vecchissima teoria della retribuzione? Eppure è così: chi di voi non ha sentito dire frasi del tipo: “era troppo buono, non meritava questo”. L’ufficio di pastorale familiare con il Servizio pastorale disabili ha avviato una collaborazione per i corsi di preparazione al matrimonio. Crea disagio parlare di disabilità a una coppia che ha in progetto di formare una famiglia e ci è stato utile il gioco di parole creato da Claudio Imprudente, un pedagogista con una grave disabilità motoria, che ci ha invitato tempo fa a trasformare la disabilità da una sfiga a una sfida. Così inizio gli incontri dicendo alle coppie che sono lì non per portare sfiga ma per lanciare una sfida al loro amore. Accogliere la suocera un po’ rompiscatole, accompagnare la vicina non vedente, sostenere la famiglia che nel palazzo vive una disabilità diventa una sfida che può permettere alla coppia di sposi di nutrire e di fortificare il loro amore.

Cyril Axelrod è un sacerdote sordo – cieco, conosciuto per la sua azione instancabile a favore dei sordi e dei sordo – ciechi. Egli dice che la sua missione nelle parrocchie è di aprirle alla speranza e alla fede che le persone sordo cieche possano ricevere il messaggio di Dio attraverso la gentilezza dei vedenti e che essi possano imparare la gioia del comunicare con loro.

Stefano Toschi nel suo libro La meraviglia. Il salmo 118 dal punto di vista dell’handicap scrive:

«Ritengo che il deficit possa essere vissuto in tre modi fondamentali, che non si escludono a vicenda, ma possono coesistere o ripresentarsi a turno nel corso della vita. Nel primo caso il deficit è vissuto come handicap, cioè come difficoltà, ostacolo, oppressione da cui cercare di liberarsi. È la dimensione tragica della rabbia, della lotta sull’orlo della disperazione. Nel secondo, il deficit è avvertito come limite di fatto, che definisce la propria identità personale, così come i tre angoli uguali definiscono il triangolo equilatero. Questa è la dimensione dei periodi sereni, quando è più facile accettare la realtà così com’è. Il terzo modo consiste nel riconoscere un punto di forza proprio nella debolezza del deficit: è la “pietra scartata dai costruttori” che diventa “testata d’angolo”» (pag. 78).

3. «Anzi quelle membra del corpo che sembrano le più deboli sono le più necessarie» (cf 1 Cor.12 )  Perchè la persona disabile è necessaria nella nostra società postmoderna?

Questa frase di San Paolo mi ha messo in crisi quando mio figlio Gabriele a seguito di una malattia degenerativa è diventato un disabile grave. Non riuscivo a vedere la necessità di Gabriele, sembrava piuttosto che gli altri fossero necessari a lui per permettergli di vivere.

Alcuni anni fa Fr Marco ha avviato una interessante iniziativa di volontariato presso il carcere di Torino. I sordo-ciechi di cui si prendeva cura al Cottolengo di Torino andavano a trovare i detenuti, insegnando loro a parlare la lingua LIS e a leggere il Braille. I detenuti a loro volta insegnavano ai loro “volontari” disabili a utilizzare il computer. Marco ci ha chiesto di incontrare lo “sfigato” gruppo e raccontare loro la nostra sfida. La prima volta sono andata sola e i detenuti hanno espresso il desiderio di conoscere Gabriele così dopo poco tempo con mio figlio ci siamo ritrovati “in carcere”. Gabriele è arrivato al padiglione infuriato. Per calmarlo con i detenuti abbiamo iniziato a cantare. Questo incontro iniziato in maniera atipica ci ha permesso di essere più autentici. Nella nostra società, malata di efficientismo e individualismo, la persona con disabilità, soprattutto se grave, ci costringe a spogliarci delle nostre ingannevoli certezze, a prendere contatto con la fragilità che è propria di ogni essere umano. Non esistono persone che non hanno bisogno di nessuno, è un devastante inganno il pensarlo. Il disabile, soprattutto se grave, ci costringe a passare dallo sterile “io” al fecondo “noi”. Gabriele e quelli come lui, in cui traspare ed è evidente la vulnerabilità, sono dei soggetti attivi nella nostra comunità, non perché producano ma per la loro peculiarissima maniera di essere. Sono dei soggetti attivi perché attivano un processo che ci porta ad essere più autentici e solidali.

Trasformare l’handicap in sfida è quello che ha fatto Cristina Acquistapace , affetta dalla sindrome di down. Cristina a 33 anni diventa suora. Ella dice spesso: “Se nascevo nel 2000 l’amniocentesi mi fregava” riferendosi all’aborto praticato nel caso in cui l’amniocentesi, appunto, rivela malformazione. Lei va in giro per l’Italia, con quella che definisce “la sua squadra” cioè la sua famiglia, per andare a raccontare quanto bella sia la vita, per combattere la povertà spirituale che affligge il nostro paese.

La traccia per prepararci al convegno delle chiese di firenze ruota attorno a cinque verbi: “Uscire”: nessuno come una persona disabile ci costringe a uscire dal nostro individualismo e utopia di perfezione .

Annunciare”: prendo a prestito dal filosofo Stefano Toschi (La meraviglia):

«Le persone disabili sono (…) più vicine a Dio non perché siano automaticamente sante, ma perché la loro condizione le spinge a porsi il problema della sua esistenza e della sua bontà. In un mondo dove sembra prevalere l’idolatra» (p. 100)

Il disabile annuncia e testimonia che “la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”.

«Il Signore fa una rivoluzione: ci chiama ad essere noi stessi, valorizzandoci in quello che siamo abituati a svalutare» (p. 120).

Basta pensare al padre Abramo, vecchio sposato a una donna sterile, a Mosè, “impacciato di bocca e di lingua”.

4. Quando  le energie e le risorse familiari vengono meno: la sfida del “dopo di noi”

Le persone disabili ci “ educano”. Altro verbo inserito nella traccia di preparazione a Firenze. Si legge nelle Sacre Scritture che Dio ci prova… Sempre da Stefano Toschi (La meraviglia, p. 96)

Ma l’amore del Signore è gratuito, non è Lui che ha bisogno di mettere alla prova l’uomo è l’uomo che ha bisogno di essere messo alla prova, perché se non incontra una resistenza rimane chiuso in se stesso, con una presunzione di autosufficienza.

La persona con disabilità ci educa alla relazione, all’ascolto, al gioire delle cose semplici, talmente semplici che nella nostra società complessa finiamo per non scorgerle, se non attraverso gli occhi dei “semplici” di coloro ai quali a Dio piace di rivelarsi.

Finora ho portato esempi di disabilità “trasfigurata”, di disabilità che è divenuta una opportunità di crescita, non solo per il disabile ma anche per la rete che gli sta intorno. Ma purtroppo la cronaca e la nostra esperienza ci racconta più spesso della sfiga della disabilità: genitori che arrivano a uccidere i figli disabili perché la nostra disumana e liquida società postmoderna ruba la speranza e il senso alla loro fatica giornaliera. Storie di ordinaria solitudine: in famiglia, nella società e purtroppo spesso anche nella comunità ecclesiale, che sentendosi non preparata ad accoglienze così rischiose, rimane per un lungo tempo, in questo caso davvero perso, in attesa di prepararsi. Pensate se anche noi famiglie potessimo mettere in pausa l’arrivo dei nostri figli speciali, in attesa di essere pronti.

Ho conosciuto tanti genitori, per lo più mamme, spaventate non tanto dalla morte alla quale andavano incontro ma terrorizzate da un inesistente “dopo di noi”. Sono icosiddetti Care giver, che possono essere genitori, ma anche fratelli, che dimenticano di avere una vita propria di cui prendersi cura.

Ma ci sono anche persone che vivono una disabilità senza un nucleo familiare di supporto e lì sono guai grossi: necessitano di una assistenza di 24 ore e devono fornirsela con una pensione di invalidità inadeguata. Ovviamente in una società efficientista è impensabile l’integrazione lavorativa di una persona con disabilità. Così con una scarna pensione devono pagare in alcuni casi: affitti, utenze, cibo e una assistenza di 24 ore: un miracolo riuscirci!

Ritorna così uno dei verbi della Traccia: “abitare”. Nel racconto della guarigione dell’indemoniato di Gerasa, al quale è facile accostare tutte le persone con problemi di salute mentale, si dice che egli stava in un luogo non abitato. Quasi sempre la disabilità, ancor più se è psichiatrica e comportamentale non è abitata. Occorre abitare, farsi prossimo, restare per trasfigurare quel luogo. Occorre abitare questa faticosa disabilità non solo per aiutare chi la porta, ma anche per dare un volto umano alla nostra società, per crescere insieme nella consapevolezza che “ il nostro esistere è un “esistere con” e “un esistere da”. Impensabile, impossibile senza l’altro (dalla Traccia).

Concludo ancora con l’aiuto di Stefano Toschi (La meraviglia, p. 107):

«In fondo anche l’handicap è una spada che divide. Se non c’è una sentinella ad avvertire la città, l’handicap diventa una tragedia: fa una strage, perché appunto non uccide solo la persona handicappata ma la sua famiglia. Conosco parecchi disabili la cui famiglia si è sfasciata proprio a causa di questo figlio (o parente) “disgraziato”».

La famiglia e la comunità finisce per privarsi della possibilità di sperimentare un “nuovo umanesimo”.

Rosa Maria Foti  
Responsabile del Servizio Pastorale Disabili
Diocesi di Palermo

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