Frangar, non flectar
di Gianni Ambrosio
1. Introduco la riflessione con due immagini, il vaso di argilla e il pane spezzato e donato e concludo con un augurio immaginario.
La prima immagine è quella del vaso di argilla: esso è fragile, come fragile è la condizione umana, precaria e limitata. Il termine fragilità deriva dal verbo latino ‘frangere’, rompere, spezzare. “Frangar, non flectar”, mi spezzerò, ma non mi piegherò, recita un noto aforisma latino, attribuito a Lucio Anneo Seneca, spesso ripreso come motto gentilizio per evidenziare l’animo nobile e forte che resiste al male e alle avversità.
La fragilità indica qualcosa di debole e di delicato che può rompersi: richiede dunque attenzione e cura. La fragilità invoca la cura, una cura da offrire e da accogliere.
Sappiamo che la fragilità ha molti volti, racconta i nostri limiti, tocca le zone d’ombra della nostra vita, esprime qualcosa che manca o che viene a mancare, manifesta l’incompiutezza della nostra umanità. Il nostro volto è sempre esposto al vento, allo sguardo altrui, agli imprevisti, alle cose che accadono. Ma la fragilità non si ferma agli aspetti esistenziali, riguarda anche il contesto di vita, gli aspetti culturali, sociali ed economici. In ogni campo e in ogni ambito, ci sono più domande che soluzioni.
La sapienza biblica – e, più in generale, la sapienza etico, filosofica e religiosa – invita a non fuggire dalla fragilità, ma a riconoscerla e ad accettarla in quanto tratto umano fondamentale, espressione dell’esistenza umana.
Sappiamo che l’invito viene spesso ignorato. È facile indossare maschere per oscurare o per camuffare i volti della fragilità in modo da apparire indifferenti e forti, in un contesto in cui ha diritto di esistenza solo ciò che è vincente.
Ma la fragilità negata o rifiutata provoca una drammatica conseguenza: ci distoglie dal reale, ci astrae – cioè ci distacca, in senso etimologico – dalla nostra natura personale e relazione, ci isola per rinchiuderci in una gabbia.
I rischi di questo rifiuto ci sono e oggi sono particolarmente incombenti. Mi limito a citare una frase di Papa Francesco. Rivolgendosi ai Vescovi radunati a Philadelphia per l’incontro mondiale delle famiglie, ha affermato: “Oserei dire che una delle principali povertà o radici di tante situazioni contemporanee consiste nella solitudine radicale a cui si trovano costrette tante persone”.
2. Se riconosciamo di essere vasi d’argilla, cioè fragili, vulnerabili, poveri, possiamo invocare la cura e possiamo ascoltare e venire incontro al bisogno.
Se condividiamo la comune fragilità, possiamo condividere la cura di cui tutti abbiamo bisogno, prestando ascolto all’invocazione, nostra e degli altri, che sgorga dalla comune fragilità e che è sempre provocazione talvolta anche dolorosa. Bisogna saper guardare con affetto ai nostri volti e ai volti di chi è attorno a noi, tenere vivo e alimentare con fiducia il rapporto con la realtà che ci circonda, con gli altri, con la natura, con la storia,
L’immagine del pane donato e spezzato – è la seconda immagine – vuole esprimere questa capacità di cura, da offrire e da ricevere. Questa immagine del pane donato e spezzato ha la sua pienezza ed autenticità in Gesù Cristo. Scrive l’apostolo Paolo: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9). Nel volto del Crocifisso, nella debolezza della Croce, Dio mostra la sua cura che è potenza di amore, di vita e di risurrezione.
“Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi”, afferma ancora l’apostolo Paolo (2 Cor 4,7). Il tesoro è Cristo, Verbo incarnato che si dona a noi per offrirci la misura grande dell’umano e per aprire la porta della pienezza della vita alla nostra fragile umanità. Tutto questo nella concretezza della storia, nella vita in carne ed ossa, nella relazione premurosa per i fratelli bisognosi e piccoli, nella libertà donata per amore, nella estrema debolezza della Croce.
Una citazione di Papa Francesco può aiutarci a comprendere la relazione tra la povertà e fragilità del vaso di creta e la ricchezza del tesoro. “Fratelli, noi abbiamo un tesoro: questo di Gesù Cristo Salvatore. La Croce di Gesù Cristo, questo tesoro del quale noi ci vantiamo. Ma lo abbiamo in un vaso di creta. Vantiamoci anche … dei nostri peccati … Gesù Cristo non ci ha salvati con un’idea, con un programma intellettuale, no. Ci ha salvato con la carne, con la concretezza della carne. Si è abbassato, fatto uomo, fatto carne fino alla fine. Ma solo si può capire, solo si può ricevere, in vasi di creta” (Omelia a Santa Marta, 14 giugno 2013).
Il tesoro che è Gesù Cristo “solo si può capire, solo si può ricevere in vasi di creata”. Ma anche il tesoro è fragile, è pane spezzato e donato. L’Eucaristia è chiamata da Paolo (1 Cor 10,16), da Luca (22, 19) e dagli Atti degli Apostoli (2, 42,46; 20, 7, 11) fractio panis: il pane, se non è fragile, non si spezza e non è commestibile.
In Gesù Cristo ci è data la possibilità – la grazia – di un umanesimo in cui la fragilità umana diventa il luogo dell’ascolto e dell’accoglienza, della cura e dell’amore e il pane spezzato diventa pane donato che nutre, alimenta e sostiene il cammino verso la meta definitiva.
3. Vorrei rivolgere un augurio immaginario al nostro laboratorio e soprattutto al Convegno di Firenze. Ho immaginato che il più illustre fiorentino, Dante Alighieri, rivolga il seguente invito alla Chiesa in Italia e alla società italiana: riscoprire la bellezza e la gioia della vita nova che sgorga dall’incontro con la persona amata per arrivare all’incontro con “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso XXXIII, 145), come recita l’ultimo verso del Paradiso.
Il primo “libello” scritto da Dante è intitolato “Vita nova”. Tutto ha inizio – “incipit vita nova” – dalla vita rinnovata e trasfigurata dall’amore che rende il “cor gentile”. Quell’amore ha un nome e un volto, è Beatrice. Ma l’incontro con Beatrice è come una folgorante rivelazione che conduce Dante ad andare oltre se stesso: l’amore – anzi l’Amore – si impadronisce di lui, della sua anima, della sua vita. Attraverso l’incontro con Beatrice, è l’Amore stesso di Dio che agisce in lui.
La vita nova, originata dall’incontro, è l’anima dell’umanesimo che in Cristo Gesù è sempre nuovo e sempre creativo. Dante ci ricorda che l’incontro con l’altro vince la chiusura autoreferenziale e che lo stesso amore umano è capace di accogliere l’Amore da cui tutto discende.
Spero che la Chiesa italiana che si raduna a Firenze possa accogliere l’immaginario augurio di Dante: aiutiamo la persona umana – fatta di relazioni, di cuore, di volti – a non chiudersi nella solitudine, ma ad aprirsi e a far valere la capacità di incontro, di ascolto e di cura reciproca, per una vita nova di ogni persona e della nostra società.
+ Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza
Vicepresidente del Comitato preparatorio del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale
Intervento al 3° Laboratorio nazionale in preparazione al Convegno Ecclesiale di Firenze. Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1 ottobre 2015