Quelle ferite da curare, la sfida della trasfigurazione
di Francesco Botturi
Nel rapporto tra vulnerabilità e cura è contenuta la chiave di ogni relazione umana, che porta sempre in sé il fatto di unire soggetti accomunati dal bisogno di accogliere e di essere accolti da qualcuno
Fragilità e cura è un binomio che indica la circolarità tra una condizione di bisogno e un’iniziativa di risposta ad essa. La circolarità però è imperfetta, perché la condizione di fragilità è una struttura permanente dell’uomo, lungo tutto il corso della sua vita e a tutti i livelli della sua esistenza. La fragilità appare insuperabile; se essa si evidenzia nei momenti acuti dell’incidente, della malattia, della morte, è però evidente che la condizione di fragilità sottende l’intera esperienza umana.
Da questo punto di vista ogni sindrome prometeica, di qualunque epoca e di qualunque tradizione culturale ha qualcosa di stonato. Anche i maggiori progressi della storia dell’umanità, che hanno garantito inedite sicurezze contro le malattie, i guasti delle stagioni, le carestie, gli imprevisti dell’esistenza, ecc., si sono sempre dovuti confrontare con il ritorno di fragilità e di vulnerabilità in nuove forme, rese possibili anche dagli stessi progressi raggiunti. Ciò ribadisce la questione essenziale che mi sembra stia al cuore del binomio fragilità e cura: la cura si trova in una posizione di inferiorità di fronte all’inestirpabile fragilità della condizione umana che ne mette in crisi il senso; se non forse quello di una maledizione che grava sull’umanità, come quella del Prometeo incatenato, la cui pena si rinnova continuamente. Per questo restano sempre interessanti le posizioni di autori «tragici», che non indulgono a facili conciliazioni, ma evidenziano quanto l’esistenza degli uomini sia dominata dallo scandalo dell’incerto e pericoloso divenire dell’esistenza che genera «risentimento» contro la vita (Nietzsche) o dall’esperienza frustrante dell’impotenza infantile, che genera proiezioni religiose riparatorie (Freud).
Si può comprendere a questo punto perché fragilità e cura sia un binomio che sta al centro della questione dell’umanesimo, come nell’idea del Convegno fiorentino della Chiesa italiana del prossimo novembre: in qualunque forma di fragilità e in ogni attività di cura è in gioco un’idea dell’uomo, come è ben visibile in tre figure tipiche della cura. Una prima è quella oltranzista, che confida nel progetto tecnico di una condizione in cui l’uomo sarà non del tutto esente da fragilità, ma ampiamente garantito contro di essa. È l’ipotesi per ora utopica di una condizione nella quale biotecnologie, simbiosi uomomacchina, varie forme di potenziamento delle prestazioni umane potranno dominare la fragilità. È chiaro qui il segreto timore, che muove questa prospettiva semi-realistica, nei confronti di una fragilità esteriorizzata ed esorcizzata.
Una seconda figura della cura è, invece, quella che nel rapporto tra fragilità e cura vede una struttura portante dell’umano. In tale rapporto è contenuta la chiave di ogni relazione umana, che sempre porta in sé il fatto di unire soggetti accomunati dal bisogno di accogliere e di essere accolto da qualcuno. Fragilità e cura divengono così una paradossale risorsa umana, perché riconoscerne la realtà e assumerne il compito sono condizioni essenziali di umanizzazione e di crescita.
Ma la seconda figura non risponde al dramma che abita al cuore della fragilità e della cura. Il prezioso valore della relazione umana in esse contenuta esalta la nostalgia per una pienezza d’essere e di bene che la cura umana non è in grado di procurare. Fragilità e cura chiedono di più: invocano una «trasfigurazione» (una delle parole fondamentali del Convegno di Firenze), in cui sia conservata la divina verità della custodia di chi è fragile e sia donata l’eterna redenzione di chi è piccolo. È in Cristo risorto che l’umanesimo della cura trova il suo senso compiuto.
da Avvenire, 20 settembre 2015