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Abitare è curare, curare è abitare

di Silvano Petrosino

A me sembra che la definizione più rigorosa e adeguata di «abitare» sia quella suggerita dal versetti biblici di Genesi 2, 15: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e custodisse». Emerge all’interno di questa «definizione» il senso drammatico dell’abitare in quanto cura, ma anche della cura (tratto specifico, ci insegna Heidegger, del modo d’essere dell’uomo) in quanto abitare: si tratta, conviene sottolinearlo, di un costruire che al tempo stesso è, o dovrebbe essere, un «coltivare e custodire». Il «coltivare» esprime il tratto più esplicitamente attivo/proiettivo, se così posso esprimermi, dell’agire umano: l’uomo non subisce la vita, ma interviene su di essa, la trasforma, prende l’iniziativa nei suoi confronti modificandola secondo quei segni/sogni che costituiscono la trama stessa della sua sensibilità e della sua intelligenza. In tal senso l’abitare implica quel costruire che non si limita mai ad assemblare materiali e forme già dati, poiché esso, oltre ad inventare nuovi materiali, genera la forma stessa del luogo in cui si trova ad abitare: l’abitare informa lo spazio dando vita ad un luogo che non è mai una mera attualizzazione di potenzialità, formali e materiali, già presenti nella natura. In altre parole, un luogo (laddove l’uomo abita in quanto uomo) si impone sempre, rispetto allo spazio ch’esso informa, come un evento (un’opera) che quest’ultimo, lo spazio, non solo non contiene, ma neppure è mai in grado di pre-vedere. In tal senso un luogo è essenzialmente altro rispetto allo spazio.

Tuttavia il «costruire» relativo all’abitare è, o dovrebbe essere, anche un «custodire». E’ questo il tratto più esplicitamente passivo/ospitale dell’agire umano. Passivo/ospitale nei confronti di che cosa e/o di chi? Come ho già sottolineato, bisogna rispondere: nei confronti di quell’alterità/eccedenza nella quale il singolo soggetto si imbatte senza poterla mai evitare, ma neppure ridurre e porre sotto controllo. Si potrebbe anche dire che in generale si tratta proprio di «custodire» l’esperienza stessa dell’uomo in quanto luogo dell’emergere di un’alterità irriducibile e non dominabile. Che il «costruire»  relativo all’abitare umano debba essere inteso anche come un «custodire» significa pertanto che non c’è azione dell’uomo, per quanto «creativa», che possa concepirsi come pura e semplice «origine»: c’è altro, c’è sempre dell’altro (e l’«origine» è per l’appunto l’altro dell’«inizio») e l’altro è proprio ciò che non si «costruisce» e neppure si «inventa», per riprendere la felice espressione di Derrida. Di conseguenza ogni singola «iniziativa» umana, ogni possibile edificazione/costruzione umana, non può che accadere all’interno di un già accaduto, di una scena d’alterità ch’essa, proprio perché «inizio» e non «origine», è sollecitata senz’altro a innovare (coltivare), ma al tempo stesso anche ad accogliere e a custodire. A questo livello ogni uomo è posto con forza di fronte al suo essere mortale e storico: egli non è origine di se stesso, egli ha ricevuto ciò di cui non è mai stato l’autore, e proprio questa esperienza dell’eccedenza/alterità è ciò che fa emergere l’evidenza di quel limite che non solo non si deve mai misconoscere o censurare, ma anzi si deve curare-custodire come il segreto più profondo e fecondo dell’abitare umano.

Di conseguenza in termini rigorosi si deve affermare che l’uomo «abita» in quanto e perché egli stesso è «abitato», o anche che l’esperienza umana dell’«abitare» non può mai prescindere dal fatto che il soggetto stesso, l’abitante, è a sua volta abitato da ciò che lo investe, dall’inquietudine di un’eccedenza/alterità ch’egli in nessun modo è in grado di numerare, ordinare e porre sotto controllo. Se dunque l’uomo, come vuole Heidegger, esiste in quanto abita, allora egli abita in quanto è a sua volta abitato: l’uomo – ecco ciò che a me sembra imporsi come una condizione essenziale del suo proprio modo di essere – è sempre un abitante e un abitato, un abitante che è tale proprio perché al tempo stesso abita ed è abitato. Da questo punto di vista l’appello biblico a «custodire» deve essere inteso come una sorta di sollecitazione rivolta all’uomo affinché egli riconosca che non tutto si può «costruire», e neppure «immaginare» ed «inventare», che dunque c’è altro, c’è dell’altro, un resto che sfugge ad ogni invenzione, che si sottrae alla pur grandiosa capacità umana di «coltivare». Pertanto, in estrema sintesi, il «custodire» è sempre relativo all’incostruibile. All’interno del logos biblico questo significa che ultimamente ciò che l’uomo è chiamato a coltivare-e-custodire non è nient’altro che il suo stesso essere creatura e l’essere creatura di ogni altra creatura.


Silvano-PetrosinoSilvano Petrosino
Professore associato di Filosofia della comunicazione
Università Cattolica del Sacro Cuore

 

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