rassegna stampa

Alle frontiere dell’umano, la teologia per Firenze 2015

di Roberta Leone

Intervista con Giuseppe Lorizio, docente alla Pontificia Università Lateranense e relatore al Convegno della Chiesa italiana

Uno stile sinodale da inaugurare, le risorse, le sfide e le ingiustizie del paese-Italia, il punto d’Archimede del pontificato di Francesco e una teologia che vuole incontrare l’uomo in frontiera: alla vigilia del V Convegno ecclesiale nazionale, in calendario a Firenze dal 9 al 13 novembre prossimi, il teologo Giuseppe Lorizio, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Lateranense e relatore al Convegno di Firenze, offre a Vatican Insider un’introduzione sui temi del nuovo umanesimo e alcune prospettive teologiche per il cammino della Chiesa in Italia.

L’umanesimo cristiano in dialogo con l’uomo contemporaneo: quale idea muove il Convegno di Firenze?

«L’intuizione del Convegno è che la Chiesa deve incontrare la condizione umana. Questa intuizione, messa in campo già prima di papa Francesco, riceve adesso una forma molto più originale, quella dell’immediatezza dei gesti e delle parole del Santo Padre. Per questo, quello di Firenze è un Convegno “nuovo”, che si situa dentro una catena di eventi che partono dal 1976, ma con una grande novità: uno stile teologico che vuole essere corale».

Intende anche sinodalità nel metodo?

«Il metodo ha due parole chiave che mi sembrano interessanti. La prima è concretezza. L’umanesimo cristiano – già K. Rahner lo diceva – è un “umanesimo concreto”: non si tratta di dare una ridefinizione dell’uomo, ma di leggere e interpretare la condizione umana. Cioè, di entrare nel tessuto concreto del disagio, ma anche degli aspetti certamente positivi. Il Paese – è al Paese che credo il Convegno debba parlare, e non solo ai credenti – non presenta solo problematiche. Ha anche risorse, che sono fatte di umanità. Allora, un umanesimo concreto deve aiutare soprattutto i gruppi di lavoro del Convegno ad avere simpatia verso tutto quel che di positivo c’è nel Paese, e profezia per essere critici nella individuazione di ciò che non va, di fronte alle ingiustizie e alle forme di disumanità che devono essere denunciate».

L’altro elemento? 

«L’altro aspetto del metodo è la coralità-sinodalità. Il Convegno non è chiamato a fare e ascoltare conferenze o aggiornamenti, ma neppure a produrre progetti pastorali. Non ci può essere un progetto pastorale per tutta la Chiesa italiana: i progetti pastorali si fanno sul territorio. Il Convegno deve, piuttosto, inaugurare uno stile sinodale, che è dato dalla sua stessa struttura: i gruppi di dieci, poi di cento, poi di quattrocento. Ma non ci si improvvisa sinodo e, a Firenze, questo stile sarà soltanto inaugurato, perché si metta in moto un processo».

Quali potrebbero essere i passi successivi?

«Bisognerà, secondo me, che almeno da qualche gruppo venga la proposta di attivare nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle regioni, dei percorsi di formazione alla sinodalità. Formazione (teologica e metodologica) che comincia certamente dai laici, dai presbiteri, dai religiosi e dai vescovi. Diceva Giovanni Crisostomo: “La Chiesa è sinodo”. Per essere sinodo dobbiamo essere Chiesa, per essere Chiesa dobbiamo imparare a partecipare, per partecipare dobbiamo imparare ad ascoltare e dialogare. La sfida va colta alla luce di quello che continuamente il Papa dice sulla teologia».

A quale teologia pensa in questo passaggio? 

«La teologia di cui ha bisogno in questo momento la Chiesa in Italia, e in particolare questo Convegno, chiamato a riflettere sul rapporto tra Gesù e l’uomo, è diversa da quella dei precedenti Convegni, perché non deve essere una teologia accademica. Da sempre, da quando cioè ero in parrocchia, la mia idea è che il luogo della teologia non è l’università, ma è la Chiesa e la città. L’università può essere una struttura di servizio della Chiesa e alla polis o può non esserlo, e allora si isola. Se questo è vero, c’è bisogno di una teologia che si giochi su alcune parole chiave. La prima di queste è: incontro».

Incontro, umanesimo. 

«Deve esserci una cultura dell’incontro. La Chiesa non solo insegna, ma impara. Non è, questa, una grande novità, neppure del Vaticano II. Già il Concilio Vaticano I diceva nel 1870: “La Chiesa è debitrice verso tutti”. Cioè, in un certo senso la Chiesa è serva. C’è una diaconia della verità, che la Chiesa esercita perché è in debito verso tutti. Non è in credito. Quindi, cultura dell’incontro significa capacità di incontrare chi la pensa diversamente, chi non è ancora credente, chi è credente e dubita e chi non è più credente. Queste sono le grandi figure che si presentano di fronte a noi».

Possiamo tratteggiarne i profili?

«Incontriamo il non ancora credente, da avvicinare a Gesù di Nazareth; il credente che dubita, da cercare di illuminare, ma non perché poi i dubbi vengano sempre tutti meno. Quando Paolo VI, nella sua professione di fede, parla della Trinità, dice: “Oggi, nell’oscurità della fede”. Perché la fede è anche nelle tenebre. E poi, i più difficili: coloro che si sono avvicinati al cristianesimo, sono stati delusi dai cristiani e si sono allontanati. Questa è la vicenda dell’Occidente: la delusione, un cristianesimo che ha generato tante cose buone, ma che poi ha finito con il deludere l’uomo. Siamo chiamati a decifrare queste delusioni. E le dobbiamo incontrare attraverso il meccanismo della riconciliazione, della misericordia. Misericordia è anch’essa parola chiave. Papa Francesco ripete che la misericordia deve entrare nel diritto, nella teologia, nella prassi della Chiesa, nella pastorale. Deve essere il punto di Archimede di tutto: “Datemi un punto e vi solleverò il mondo”. Il punto è la misericordia».

Manca poco più di un mese all’apertura dell’Anno santo. Cosa chiede l’umanesimo cristiano sul fronte della misericordia?

«Il Convegno di Firenze si celebra tra il Sinodo sulla famiglia e il Giubileo della Misericordia. Pensando al Giubileo, bisogna che ci convinciamo che la riconciliazione non può essere vissuta solo a livello individuale – vado a confessarmi, ricevo l’indulgenza e ricomincio la mia vita privata, familiare, lavorativa – ma riguardi anche le strutture, cioè le “strutture di peccato”. E ci sono strutture di peccato anche nella Chiesa. Lo viviamo anche in questi giorni, con una visione della Chiesa come luogo di potere e di mercato. Se il mercato entra nella Chiesa, diventa una struttura di peccato. La quinta piaga della Santa Chiesa di Rosmini è la “servitù dei beni ecclesiastici”, cioè la Chiesa che si asserve al denaro. È una questione di grande attualità ed è al tempo stesso una piaga di sempre, perché l’abbiamo tutti, la tentazione: del denaro, dell’egoismo, del potere. E allora bisogna vigilare, e nel momento in cui dobbiamo cercare di purificare le strutture, dobbiamo renderle trasparenti».

Strutture sociali: quali possono essere terreno di una riconciliazione?

«Possiamo chiederci per esempio in che modo il messaggio del Giubileo possa incidere sulla situazione della giustizia in Italia e in particolare sul regime carcerario, in quanto le strutture e le istituzioni attuali non si presentano con strumenti adeguati per gestire la giustizia. Vanno attivate strutture nelle quali si possa ottenere il recupero del reo, piuttosto che la sua ulteriore degradazione. Anche il giustizialismo esasperato, che fa sì, per esempio, che la persona sia condannata mediaticamente – condanna spesso più atroce di quella giudiziaria – è un fatto che deve far riflettere sulla responsabilità professionale di tutti. Sono soltanto alcuni esempi, ma per me rilevanti. Ovviamente la Chiesa può solo cominciare da se stessa, però diventa anche un segno. Molti grandi santi erano convertiti che hanno sperimentato la misericordia. E, nella Chiesa, quel peccato perdonato è diventato santità. Pensiamo ad Agostino, a Francesco. E questo è il lavoro che dobbiamo cominciare da dove possiamo, cioè da dentro le comunità cristiane, per lanciare un messaggio anche alla politica e alla società civile».

Fare incontro, fare misericordia. Un altro punto?

«La necessità di non aver paura dei conflitti. Lo dice Bergoglio nell’articolo che uscirà sul prossimo numero della Civiltà Cattolica e che è stato anticipato dal Corriere della Sera: il rischio è l’“estremismo di centro”. Rischiamo la mediocrità, rischiamo di essere insignificanti perché diciamo cose banali, che l’uomo di oggi già ha sentito e che gli sembrano obsolete, da museo. E finalmente, l’altra parola: la frontiera. Se la Chiesa è una chiesa di frontiera, allora la teologia di cui ha bisogno questa Chiesa, in Italia, è una teologia di frontiera».

Guardiamo la realtà italiana. Quali frontiere dell’umano vede? 

«Per esempio, la frontiera tra il cittadino e le istituzioni. Tra il cittadino e i luoghi del potere mi sembra ci siano dei muri invalicabili. Dobbiamo ridiventare capaci di alimentare la democrazia, dovremmo anche essere capaci di alimentare la partecipazione, penso a Firenze alla grande figura di Giorgio La Pira. L’umanesimo cristiano è un umanesimo della partecipazione, e dunque del partecipare alle strutture. A qualsiasi livello, dal consiglio di classe di una scuola con genitori e studenti, fino agli organismi di partecipazione alle strutture pubbliche. Il nostro problema è che, a volte, proprio perché credenti, ci “imboschiamo”. Il credente imboscato non risponde all’umanesimo cristiano».

Veniamo così alla responsabilità politica del cristiano.

«E alla responsabilità politica del cristiano laico. Vedo nella Chiesa italiana una svolta teologica interessante: si dice che nel momento in cui bisogna difendere dei valori nella società, devono essere i laici a farlo (si diceva anche prima, ma non lo si attuava, esponendo i vescovi all’accusa dell’ingerenza). Non c’è bisogno di fare crociate che partano dalla gerarchia. Bisogna che siano i laici ad attivarsi, non in maniera di opposizione, ma con la forma del dialogo e della democrazia. Di una democrazia che ha bisogno, in Italia, per essere umana, vera, autentica, di recuperare la necessità di scegliere le persone, anche a livello elettorale. Su questo non dobbiamo demordere: indicare la necessità che finalmente si ritorni non solo a scegliere una squadra, ma anche chi gioca in campo».

Dialogo con i non credenti: quale occasione può essere il Convegno?

«Un’occasione nella quale fare due operazioni. La prima, leggere le domande dei non credenti. Tutti si interrogano. E allora, quelle domande fondamentali che ognuno porta dentro di sé, dobbiamo cercare di farle esprimere, se possibile. Leggendo la domanda, la abitiamo con il nostro domandare, perché facciamo capire che la fede non è la risposta, quasi una pillola in grado di far passare il malessere. La fede provoca anche altre domande. Questo è, allora, il primo compito: mettere le persone in ricerca. L’altro compito è quello di mostrare la nostra umanità e quella di Cristo. Cioè, non far vedere un Dio nemico dell’uomo. Perché l’uomo diventa nemico di Dio quando viene presentato un Dio nemico dell’uomo. Per essere credente, l’uomo non deve rinunciare a qualcosa dell’umano vero. L’unica cosa a cui Gesù chiede di rinunciare è il peccato, che non è l’umano vero. Infatti, Gesù è uguale a noi in tutto, eccetto il peccato».

L’errore è un deficit di umanità?

«Molte volte andiamo a togliere alle persone la loro umanità. Invece, la dobbiamo abitare e riconciliare, perché si percepisca – è la scommessa di Pascal – che Dio non viene a togliere nulla. E qui ci muoviamo nel tema della misericordia. Qual è, d’altra parte, il genio del cristianesimo e, in particolare, del cattolicesimo? Che nel sacramento della Riconciliazione il peccato diventa strumento di grazia. Non si tratta di condannare: il Figlio dell’uomo non è venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo. E allora la Chiesa deve fare questo, a livello personale, di strutture e di società».

Fonte: Vatican Insider (7 novembre 2015)

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