rassegna stampa

Annunciare, la relazione finale

di Matteo Liut

Rivedere il sistema educativo e formativo di chi evangelizza

Accompagnare gli evangelizzatori sempre più in profondità nella Parola di Dio per far ripartire l’annuncio dentro e fuori la Chiesa. È questa in estrema sintesi la richiesta concorde emersa dai quaranta tavoli che al quinto Convegno ecclesiale nazionale di Firenze si sono dedicati alla via dell’“annunciare”. La sintesi è stata presentata all’assemblea dei delegati da Flavia Marcacci, docente di storia del pensiero scientifico alla Pontificia Università Lateranense. Alla stesura della relazione ha partecipato anche il direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, monsignor Paolo Sartor. Tra le richieste e le proposte emerse in molti tavoli di questa via vi è anche quella di una revisione sia dei percorsi pastorali di accompagnamento delle persone che dell’intero sistema educativo e formativo degli “evangelizzatori” come i sacerdoti e i catechisti. Un’istanza che è stata accolta anche nel cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, nella sua relazione finale. In gioco, hanno detto i delegati, vi è il compito di «riscoprire appieno la soggettività dell’intera comunità cristiana in ordine all’evangelizzazione».

Un orizzonte che si accompagna ad altre attenzioni specifiche nell’ambito dell’annuncio come «il desiderio di includere persone disabili, immigrati, emarginati e le loro famiglie», la capacità di «abitare i social network» o l’impegno a «rendere “piazze di incontro” gli oratori, ma anche a creare nuovi spazi di condivisione e di scambio nel territorio, arricchiti dalle strade del web». A monte, ovviamente, c’è la valorizzazione della conoscenza della Parola di Dio, che passa da strumenti come «la lectio divina e la lettura popolare della Bibbia», come pure da «esperienze innovative, simpatiche e di incontro sulla Parola». In questo modo, hanno sottolineato i delegati, sarà possibile superare alcuni nodi critici attuali come «l’autoreferenzialità, il devozionismo, il clericalismo e la povertà formativa».

Si tratta quindi di una missione impegnativa che può nascere solo una relazione personale con Cristo, perché, hanno ricordato i delegati, «si può testimoniare solo dopo aver fatto esperienza concreta di Gesù». Una preoccupazione che non deve essere data per scontata, perché solamente «la consapevolezza di essere amati porta a tornare sulle proprie motivazioni » e a impegnarsi nell’annuncio.

da Avvenire, 14 novembre 2015

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