segni dell'umano

Blue Shot Marilyn

di Giuseppe Frangi

Andy Warhol, Blue Shot Marilyn (1964), New York, Collezione Brant

Andy Warhol veniva da una famiglia cattolica ortodossa, emigrata dalla Slovacchia, era cresciuto ammirando l’iconostasi della chiesa di Pittsburg e si era quindi sempre portato dietro questa vocazione a cercare di realizzare un’arte iconica. Nella New York esplosiva dei primi anni ’60 Warhol non poteva certo proporre immagini di quel mondo ormai lontano, ma istintivamente cercò di interpretare quel bisogno che sottostava a quelle immagini e di trasferirlo su “icone” moderne. Così quando nell’agosto del 1962 lui, con tutta l’America, si misurò con la tragica fine di Marilyn Monroe, capì che in qualche modo quel fatto c’entrava in pieno con il suo destino d’artista. Marilyn rappresentava, assai più che una star: era un sogno, l’incarnazione di una bellezza senza paragoni. Non tanto perché più bella di altre, ma perché la sua era una bellezza inestricabilmente legata con un senso di nostalgia. Era la più bella proprio per quell’ombra di transitorietà che la segnava nello sguardo e nel sorriso, e che in qualche modo sembrava annunciare il tragico epilogo di quell’agosto del 1962. Era una bellezza che rimandava ad altro. Per questo Warhol, dopo aver fatto passare migliaia di foto di Marilyn, ne individuò una per lui perfetta, che avrebbe replicato in migliaia di varianti, secondo l’idea di un’arte per tutti e non per pochi (pop, sta per popolare). In quella foto Marilyn appare in tutta la sua bellezza prorompente (guardate le labbra e i capelli), ma con lo sguardo segnato da un senso profondo di malinconia. Quell’immagine incarna il senso di una bellezza che incanta e che, insieme, sfugge. La prima Marilyn Warhol la realizzò su un grande fondo oro, proprio come se approcciasse un’icona moderna. Poi vennero decine e decine di repliche tra cui questa che stava nello studio Factory nel 1964, quando Dorothy Prodber, un’amica di Warhol, un giorno la colpì in fronte con un proiettile. Blue shot Marilyn è rimasta sempre così, con il segno appena riparato ma ben visibile, come a rimarcare la dimensione di una bellezza ferita.  Quasi a ribadire che non c’è bellezza che non porti una ferita dentro.

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