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“Carità intellettuale” e “nuovo umanesimo”

di Giuseppe Lorizio

Alla lezione del più grande teologo e filosofo dell’Ottocento italiano (il beato Antonio Rosmini Serbati) appartiene la dottrina delle tre forme della carità, che, in analogia con il dogma trinitario e la prospettiva triniforme dell’essere, descrive l’agape, secondo tre fondamentali dimensioni: quella temporale, quella intellettuale e quella spirituale (altrimenti detta “pastorale”). L’unità e trinità di Dio risplende nell’essere uno e triniforme. Da notare che è l’essere che riflette Dio, non viceversa, e la struttura agapica risulta determinante, anche perché, come Dio e l’essere, la carità è una e trina: alla forma dell’essere reale corrisponde la carità temporale (quella per es. esercitata dalle nostre Caritas); all’essere ideale, la carità intellettuale (penso ad esempio al progetto culturale e ad ogni attività di servizio teologico nella Chiesa); all’essere morale, la carità spirituale (penso al dono di sé di quanti sono perseguitati e messi a morte solo perché cristiani, ma anche alla martyria-testimonianza che siamo chiamati a vivere nel nostro quotidiano ed in quanto “pastorale” all’agire ecclesiale e alle sue responsabilità). Il lavoro di chi si occupa di teologia nella Chiesa va dunque annoverato nell’esercizio della forma intellettuale della carità e chiama in causa il rapporto fra Verità e Carità. “Di qui deriva il genere di carità che abbiamo chiamato intellettuale, il quale tende immediatamente ad illuminare ed arricchire di cognizioni l’intelletto umano”. La ricerca e la condivisione del vero, in quanto esercizio della carità intellettuale, si deve compiere nell’orizzonte della profonda unità, che, nella prospettiva sapienziale propria del Roveretano, caratterizza l’autentico sapere. Nella prima forma di carità doniamo ciò che abbiamo, nella seconda ciò che sappiamo, nella terza noi stessi. Se l’essere ha a che fare con la carità e viceversa, questa, nel suo esercizio concreto e quotidiano, non può non ispirarsi alla triadicità delle sue forme, esprimendo, attraverso tale fondamentale riferimento, la propria origine trinitaria ed il proprio radicamento nel Dio uno e trino. La forma intellettuale della carità svolge un importante ruolo di mediazione tra il pensiero e il vissuto, fra la carità oggetto di speculazione teologica e l’esercizio di essa nella concretezza dell’esistenza. Questo ruolo di mediazione risulta imprescindibile se non si vuole che la carità temporale diventi mero assistenzialismo e quella spirituale-pastorale si offra in forme di fondamentalismo fanatico. D’altra parte l’innesto della forma intellettuale della carità fra quella temporale e quella spirituale-pastorale dovrebbe mettere in guardia e di fatto impedire una deriva intellettualistica e accademicistica della riflessione credente, che si denomina teologia.

Il luoghi propri del pensiero teologico sono innanzitutto la Chiesa e la città e solo in seconda istanza l’accademia. E se la comunità ecclesiale oggi viene sollecitata a strutturarsi ed agire secondo la metafora dell’“ospedale da campo”, anche la professionalità teologica non potrà non configurarsi che in relazione a questa modalità, cui costantemente ci richiama il vescovo di Roma. Infatti anche coloro che operano al fronte hanno bisogno di strumenti adeguati e il più possibile efficaci, che le retroguardie di quanti lavorano nella ricerca e nella formazione sono chiamate ad approntare. Nel “caso italiano” il “nuovo umanesimo” che la fede in Cristo pone in essere ha bisogno di un’adeguata riflessione teologica, certo non accademica o astratta, perché non diventi uno slogan da esibire in un particolare momento del cammino ecclesiale e da archiviare rapidamente, senza una vera e propria continuità coi processi in atto e l’attivazione di autentici percorsi di fede e di evangelizzazione.

Lo stesso contesto culturale richiede una particolare attenzione teologica, in quanto assistiamo pressoché quotidianamente all’appropriazione di tematiche cristiane nella letteratura, nella riflessione filosofica, nelle cosiddette “scienze umane”. Un compito fondamentale del cristianesimo nell’oggi della storia è certo quello della custodia dell’umano, in un orizzonte culturale che, mentre tenta di attribuire una sorta di coscienza agli animali e alle macchine, potrebbe correre il rischio di eliminarla, insieme alla libertà, dall’uomo attraverso una fuorviante antropologia riduzionista falsamente attribuita alle risultanze delle neuroscienze. L’istanza formativa incrocia quindi il lavoro teologico e filosofico di chi non intende rassegnarsi a un determinismo alienante e devastante e al tempo stesso continuare ad affermare la libertà dell’uomo e della sua esistenza sia egli credente o incredulo o semplicemente in perenne ricerca della verità che ci fa liberi. E d’altra parte una conversione generatasi dal coinvolgimento emozionale ed affettivo, come quella descritta nell’ultimo libro di Emmanuel Carrère Il Regno, verrà abbandonata proprio perché non supportata da un’adeguata riflessione. Quest’ultima, quando presente, si avvale di una strumentazione datata e obsoleta per esempio in rapporto all’interpretazione delle Scritture ed in particolare del Nuovo testamento.

L’umanesimo che si genera dalla fede nel Cristo Signore, nella sua radicale novità, è un “umanesimo della persona”, come ad esempio non è difficile evincere dai gesti e dalle parole di Gesù, che spesso destabilizzano le strutture anche religiose del suo ambiente per interpellare chi ha di fronte e porlo di fronte alla sequela e alla decisione per l’accoglienza del Regno di Dio, nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita. E la persona è prismatica, in quanto si compone di emozioni, di riflessioni e di decisioni. Né si può – come purtroppo spesso accade sia a livello personale che comunitario – operare un immediato passaggio dall’emozione alla decisione, che non sia accompagnato da una seria ed adeguata riflessione in grado di tener conto delle istanze culturali e sociali del nostro tempo e della radicalità evangelica che Gesù di Nazareth propone.

Di qui l’urgenza per le nostre istituzioni e strutture accademiche ed ecclesiali di accogliere l’appello, di recente rivolto nelle pagine di un quotidiano molto diffuso da un filosofo laico del nostro Paese (Roberto Esposito), che, di fronte al ritorno di Dio in sede socio-culturale indicava la necessità non tanto di una teologia della politica, quanto di una “politica della teologia”. E dovrebbe essere questo l’impegno di quanti ai diversi livelli operano nella Chiesa e nella città facendo propria la prospettiva della “carità intellettuale”.

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Relazione presentata in occasione del convegno delle facoltà teologiche italiane, degli istituti superiori di scienze religiose e degli istituti teologici, tenutosi ad Assisi l’11 giugno 2015.

 

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