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Condividere ai tempi dello share

a cura di Chiara Giaccardi

Intervista a Paolo Ruffini, direttore di TV2000


Educare/informare/intrattenere sono da sempre gli obiettivi della comunicazione mediale. Oggi, da un lato, questi obiettivi sono stati separati e persino contrapposti, dall’altro si assiste a ibridazioni dove il suffisso -tainment indica un puro scopo commerciale. Come cercare allora di tradurre in pratiche comunicative una via diversa, capace di coniugare verità e bellezza, di far crescere senza indottrinare, di informare in modo libero e attento alle conseguenze di quanto viene detto? C’è qualche sperimentazione in questa direzione che si può portare come esempio?

Quello della separazione, e persino della contrapposizione, è davvero il tema di questo tempo così confuso. Connesso e sconnesso insieme. Globalizzato e frammentato. Sappiamo tutti che non c’è educazione se non c’è informazione, non c’è educazione nell’ignoranza; e che l’intrattenimento fondato sul nulla è una ipnosi, una trappola. Una tela di ragno che ci cattura. E sappiamo bene, anche, come spesso la comunicazione, che dovrebbe essere una rete tessuta di libertà e di responsabilità, di libere scelte, di capacità di ascolto, invece di connetterci ci isola; e invece di riguardare la persona tutta intera, la smonta a pezzi, facendole smarrire così il senso, l’anima. Viviamo in un mondo frammentato in infinite nicchie che non riescono a dare un senso alle nostre vite.

La bellezza, la forza della buona comunicazione è o dovrebbe essere nella capacità di creare identità e dialogo, identificazione, senso di appartenenza, e volontà di incontro, di condivisione, di comunione. E invece ecco che ci accorgiamo che la comunicazione, spesso, anziché unire, separa, costruisce steccati. Ciò che dovrebbe unire, invece divide. Le diverse identità, i diversi caratteri, essenziali per una relazione vera, sono branditi come corpi contundenti; coltivano antagonismi sordi, sognano la scomparsa dell’altro.

Non è una questione di generi (informazione, cultura, intrattenimento). A me sembra che l’evoluzione dei linguaggi abbia ormai trasformato la televisione in un genere. All’interno della fiction potremmo distinguere tra fiction e docu-fiction, soap e sit-com. L’intrattenimento è già infotaiment, o edutaiment. L’informazione costruisce “set” per mettere in scena le notizie. Una fotografia spesso dice molto di più di un testo scritto. Il discorso sui generi è molto più complesso di quanto non lo faccia apparire una certa facilità tassonomica. Noi stessi nelle nostre vite parliamo contemporaneamente molti linguaggi. La comunicazione contamina i generi e i linguaggi. Solo che, per essere vera, essa deve puntare come forse direbbe Adorno sul dialogo piuttosto che sul marketing delle idee, sull’intelligenza come categoria morale piuttosto che sul moralismo fanatico della folla; sulla parola non come frastuono, o urlo , ma come strumento di conoscenza, di dialogo e di incontro.

Come ci ha ricordato Papa Francesco nel suo messaggio per la 48a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il nostro compito è la costruzione di una prossimità che contrasti la cultura della lontananza, della contrapposizione. Se è vero che tocca anche ai mezzi di comunicazione nutrire, a volte persino costruire, o ricostruire l’unità della famiglia umana, occorrerebbe una maggiore cautela di fronte al rischio di precipitare all’indietro verso una sorta di “tribalizzazione identitaria” capace di cancellare, di far sparire ogni forma di dialogo, ogni minimo comun denominatore.

Una cautela che a volte purtroppo non ci appartiene, presi come siamo dalla voglia di semplificare: il bianco e il nero, noi e gli altri. Si tratta di un clamoroso errore di prospettiva: una crisi di identità spacciata per orgoglio di appartenenza.

Dovremmo piuttosto conservare la memoria della radice ultima che tutti ci accomuna. Dovremmo contestare tutti ogni forma di fanatismo. Dovremmo ricostruire, rifondare, le basi di un comune sentire, le basi etiche che ci fanno riconoscere parte di un destino condiviso.

Come afferma Papa Francesco, «…oggi noi corriamo il rischio che alcuni media ci condizionino al punto da farci ignorare il nostro prossimo reale. Dialogare non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni». Non vuol dire annullare le differenze, ma al contrario apprezzarle. Valorizzarle persino. La paura invece si accontenta di stereotipi. Costruisce risposte di comodo. Colpisce più per viltà che per coraggio. Informa a metà. Cioè disinforma. Impedisce di farsi un giudizio preciso sulla realtà. Mentre una comunicazione autentica – come ci ha ricordato il Papa – non è preoccupata di “colpire”; non può ridursi all’alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio.


Se questo è il compito, come fare a tradurlo in pratiche comunicative diverse, capaci di coniugare verità e bellezza, di far crescere senza indottrinare?

Ruffini 1La prima risposta che mi viene da dare è che se vogliamo coniugare verità e bellezza dobbiamo accettare la sfida della forma, della bellezza del linguaggio. Non sempre lo facciamo. A volte pensiamo all’innovazione come a una formula. Ma innovazione non vuol dire idee brillanti. E nemmeno necessariamente programmi nuovi, giacché i programmi sono cose vive, o si rinnovano e innovano continuamente o muoiono. Innovazione e prodotto sono insomma la stessa cosa. L’innovazione è il lavoro di chi produce con responsabilità, ponendosi continuamente domande nuove. Troppo spesso poi siamo convinti che il contenuto faccia premio sulla forma. Non è così. Paolo VI diceva: «A cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini di questo secolo non ci capiscono?». La bellezza della parola di Dio è anche nella sua forma.

Prendiamo il Discorso della montagna, prendiamo le Beatitudini, su cui TV2000 sta facendo un programma pensato e condotto da Alessandro Sortino. È il più bel discorso di tutti i tempi. Lo è per il contenuto, lo è per la forma. Sono passati 2000 anni ed è capace ancora di scuoterci. Di dirci che la crisi che raccontiamo a pezzetti, senza capirla davvero fino in fondo, ha a che fare con un modello che ha posto ai margini l’essere umano. Il discorso delle Beatitudini inverte l’ordine delle cose. Tu credi che conti la ricchezza, invece ecco: Beati i poveri. Sta a noi rendere tutto questo attuale, capace di interpellarci nel concreto delle nostre vite. La Televisione che stiamo cercando di fare vorrebbe recuperare questo sguardo sull’uomo senza nostalgie per il passato, nella contemporaneità. Vorrebbe essere un segno di contraddizione.

Non è facile. Non è mai facile. Davvero la televisione e la radio – come scriveva il cardinal Martini – esaltano il carattere ambivalente che è in ognuno di noi nel momento della scelta, delle scelte, tra il bene e il male. Sta a ognuno di noi, come singoli, e come gruppi, scegliere. Ogni volta. Con la consapevolezza del compito al quale siamo chiamati. Della sua grandezza, così affascinante e anche terribile. Che ci sfida. E mette alla prova la nostra fede, le nostre convinzioni, la nostra vita. Facendoci sperimentare, ogni giorno, la distanza tra ciò che dovremmo fare e ciò che poi realmente facciamo, tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo, tra ciò che vorremmo fare e ciò che ci riesce di fare; il rimpianto del non vissuto; l’amarezza per gli errori commessi. Ma riscoprire anche, ogni giorno, la bellezza di un compito, di un cammino; di una crescita; e della condivisione di questo percorso, che ha un senso che ci trascende. E che ha senso, anzi, proprio perché ci trascende.

Ci domandiamo ogni giorno quale sia il senso di una televisione e di una radio cattolica oggi. Ci chiediamo come non deludere le attese di chi ci ha già scelto, ma anche come conquistare l’interesse degli altri. La risposta, imperfetta, che ci diamo è che il compito che ci è affidato è costruire una condivisione (uno share), una prossimità, con le persone; non con la massa anonima. Rompendo il velo di ipocrisia che avvolge così tanta parte del mondo della comunicazione, e che non ci fa vedere e riflettere su così tante, troppe cose; portando nelle case realtà che vorremmo forse non conoscere; togliendo l’alibi di poter dire “non sapevo”, “non potevo sapere”, “non mi riguarda”.

Guardare il mondo con gli occhi del Vangelo. Vedendo cose che altri non vedono, raccontando cose che altri non raccontano, capendo i segni dei tempi, mettendo in rete quello che altri scartano, vincendo l’indifferenza questa è la sfida che abbiamo davanti. Interpellando le coscienze, sorprendendo. Provocando emozioni. Facendo memoria. Uscendo dalle nostre comodità. Offrendo, per la parte che ci è data, una testimonianza ai valori cristiani nel racconto televisivo e radiofonico della realtà Ricordandoci ogni giorni che non siamo arrivati. Siamo in cammino.

Come diceva don Primo Mazzolari «il fariseismo rivive in tanti modi. Uno di questi è scambiare la strada per un punto di arrivo e di possesso». Giuseppe Savagnone, in un suo bel libro sul Vangelo nelle periferie, cita Conrad, e Capitani coraggiosi, per dire che un buon pescatore deve sempre mettersi dal punto di vista del pesce. Questa è la prossimità di cui parla il Papa. La nuova frontiera della comunicazione, televisiva, radiofonica, scritta, sta proprio in quei linguaggi che evitano di separarsi dagli altri e dalla realtà; o di averne una visione turistica. In un mondo che scambia l’ignavia per obiettività. Dove il giornalismo è spesso irresistibilmente attratto, corrotto dal potere. Noi dovremmo servire la verità. Vorremmo essere visti – anche da chi non crede – come cercatori di verità. Vorremmo fare della nostra tv e della nostra radio un luogo di tutti e per tutti dunque. Interessante anche per chi non crede. Precursore. Profetico. Persino per chi ha sempre rifiutato di credere.

E tornano alla mente le parole del cardinal Martini: «Fa’, o Signore, / che le antenne e i campanili / sappiano dialogare tra loro. / Aiuta la tua Chiesa / a essere il popolo del dialogo, / capace di dire e di praticare / la comunicazione al suo interno e con tutti. / Fa’ che sappiamo educarci ed educare / a un uso libero e liberante / dei media, per riconoscere e valorizzare / profeticamente in essi il lembo del mantello / del Figlio tuo, fatto uomo per noi».


Viviamo in un’era ipertecnologica, segnata da convergenza, nuovi linguaggi, nuove forme di partecipazione. Come sosteneva McLuhan i nuovi media non cancellano i precedenti ma ne ridefiniscono il significato. Come si ridefinisce la televisione? Come accogliere questa sfida? Come rispondere in una direzione antropologica-umanizzante anziché suddita agli imperativi del sistema tecno-economico?

Siamo tutti affascinati e allo stesso tempo preoccupati dello sviluppo vertiginoso delle nuove tecnologie nel campo della comunicazione (e no solo). Che ne sarà della carta stampata? Che ne sarà della televisione? Come reperiremo le risorse necessarie a finanziare il nostro lavoro? Siamo a un passaggio di stagione, di epoca. Un mondo vecchio che muore, un mondo nuovo che nasce. È successo tante altre volte nella storia dell’uomo e nella storia del cristianesimo. Davvero non sappiamo la sera quel che troveremo la mattina. Abbiamo paura a volte.

Penso però che la paura sia una cattiva consigliera. Come diceva Albert Einstein in una delle sue più celebri riflessioni: «Come possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose?». La crisi può essere una grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Il più grande inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita ai propri problemi. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze.

Finiamola una volta per tutte con la retorica della “crisi pericolosa”, che è la tragedia di non voler lottare per superarla. Penso che sia così. Dobbiamo accettare la sfida. Metterci in gioco. Guardare oltre le nostre esperienze passate. Senza paure. Senza passività. Siamo circondati da editori che hanno perso il senso del loro lavoro, che non sanno più cosa dire. Mentre noi abbiamo la forza e la libertà di chi sa cosa dire, cosa cercare, cosa ascoltare.

Penso per esempio che la sempre più evidente crisi del welfare statale da un lato ci offra sempre più cose da raccontare e dall’altro ci affidi il compito di riscoprire, valorizzare, ricostruire il senso della solidarietà, della comunità. In questo campo per esempio è interessante notare come il web stia riportando alla luce una interattività e una creatività diffusa che pareva scomparsa con l’avvento della società mediatica. Si aprono per noi spazi immensi. C’è un mondo fuori dalle nostre redazioni che chiede di collaborare con noi, che è affascinato dal nostro lavoro. Credo che l’unico modo per rispondere alla sfida della tecnologia, si quella di non pensarla come un idolo. Ma anche di non demonizzarla. Di non credere le sia affidato il compito di redimere l’umanità. Ma anche di non pensare che dipenda da essa la sua perdizione. Credo che il campo della nostra sfida sia delimitato da questi due opposti. Non si stava meglio quando si stava peggio. Abbiamo a disposizione strumenti prima impensabili.

Quando io ho iniziato non c’era Internet, non c’erano telefonini, non c’era la televisione satellitare, e la televisione stava uscendo dall’era del monopolio. Nascevano le tv private, soprattutto locali, però non si poteva ancora parlare di vera concorrenza. Insomma, siamo andati avanti, Siamo in un nuovo mondo.

Certo, ci sono anche dei problemi. Problemi nuovi. Internet sta diventando sempre di più il crogiuolo dove si fondano e si evolvono le nostre identità, le nostre relazioni, le nostre conoscenze, le nostre memorie, le nostre scelte. Da un lato, il web ci permette di essere in ogni luogo, in ogni tempo. Dall’altro il mondo con cui ci avvolge è un mondo virtuale, disincarnato, che riduce tutto ad un dualismo feroce: mi piace non mi piace, amico nemico, ti scrivo, ti cancello. Da un lato distrugge ogni alibi (non sapevo, non ricordavo) dall’altro costruisce alibi perfetti, spaccia opinioni per verità, insegue fantasmi che costruisce instancabile. Da un lato riscatta le periferie dalla loro marginalità. Nella Rete non c’è centro e non c’è periferia. Ogni nodo è il centro. Dall’altro rischia di distruggere il mondo reale, per sostituirlo con un non luogo dove lo spazio, e il tempo, sono annullati. Dove la parola è disincarnata, volubile, inconsapevole. E le relazioni fragili. La democrazia vulnerabile. La radicalizzazione violenta una tentazione facile, nutrita da identità fondate sulla negazione dell’altro. Sulla gogna astiosa. Pollice pro pollice verso. Game on, game over. Uno strumento potente, e terribile. Capace di dare una tribuna a chiunque, ma anche di produrre maggioranze feroci e minoranze fanatiche. Capace di unire, ma anche di scavare divisioni profonde. Trasparente, ma anche opaco. Custode della verità, ma anche della menzogna.

Dunque? La sfida che abbiamo di fronte è esattamente qui. Non possiamo e non dobbiamo sotterrare il dono della tecnologia come l’uomo che sotterra i talenti. Non possiamo sfuggire alla contemporaneità. Non possiamo non mettere a frutto i talenti che la storia ci affida. Serve un cambio di passo. Un atteggiamento diverso. Una maggiore fiducia. Una fede più grande.

I progressi tecnologici che riguardano la comunicazione vanno inseriti poi nel campo più vasto del progresso in generale, del nostro essere nella storia, nel nostro non poterci tirare fuori dalla storia. Lo stesso rapporto fra fede e ragione, fra idea e realtà non può non rientrare in questo ragionamento. E suggerirci un approccio che non si lasci imprigionare da una visione statica della comunicazione, una visione chiusa.

Alla fine è una questione di responsabilità. La questione è come recuperare capacità di visione. Nel senso più alto, ma anche nel concreto del nostro lavoro di comunicatori.

E qui ritorno al mio lavoro, alla televisione. Che è un mestiere artigianale. Fondato sulla qualità delle cose che si comunicano, e in conseguenza anche della relazione che si crea fra chi sta al di qua e chi sta al di là dello schermo (relazione che non è mai o non dovrebbe essere mai a senso unico e che infatti si chiama share, che vuol dire “condivisione”). Non c’è comunicazione se non c’è relazione. Incontro. Dialogo. Capacità di ascoltare oltre che di parlare. E di pensare allo share, lo ripeto, non come a un idolo, e non come a un demonio, ma come quello che letteralmente è o dovrebbe essere, una condivisione, una comunione, una comunità che si ritrova a imparare, riflettere, divertirsi insieme. To share in fondo vuol dire condividere. Essere nel mondo e non fuori dal mondo.


Viviamo da tempo in un “villaggio globale”, e questo ha profonde implicazioni sulle nostre vite e il modo in cui le raccontiamo: crescono le disuguaglianze, la cultura dello scarto e la globalizzazione dell’indifferenza, ma si aprono anche vie nuove di umanizzazione che prendono atto delle nuove interdipendenze e del mutamento di scenari che ridefinisce il senso dei territori e della dimensione locale, le fisionomie delle nostre città, il lavoro, le perone che abbiamo accanto e parlano lingue diverse il territorio… Come far fronte, come svolgere un ruolo propositivo, rispetto a questioni così cruciali per il nostro vivere insieme?

La buona comunicazione è anche una questione di punti di vista. Certe cose uno le capisce all’improvviso. Come per una illuminazione. Cambiando punto di vista. A me è accaduto in una favela brasiliana. Guardando alcuni bambini che giocavano. E sorridevano, mentre guardavano il mondo a testa in giù. Cambiando dunque totalmente il punto di vista. Sovvertendo l’alto e il basso, il sopra e il sotto. I bambini sono quanto di più vicino a Dio c’è sulla terra. Bisogna sempre saper imparare dai bambini.

Per esempio a vedere le cose in un’altra prospettiva. A tornare al messaggio originario del Vangelo. La pietra scartata dai costruttori che diventa pietra d’angolo. La povertà che può essere ricchezza. Visto da una favela il mondo è capovolto. Tutto si fonda sugli scarti. Ma quel che scartiamo, spesso è proprio quel che cerchiamo. La contabilità delle poste attive e passive non ha nulla a che fare con la ragioneria di chi non ha capito che il Vangelo è un’altra cosa.

La buona comunicazione, oggi, non può prescindere dal racconto della crisi che stiamo attraversando. Che è una crisi economica e di valori. È la crisi del modo in cui consideriamo il nostro essere uomini sulla terra. Ed è una crisi dalla quale si esce solo riscoprendo il valore dell’uomo. Diceva don Primo Mazzolari:

«Io non li ho mai contati i poveri,
perché i poveri non si possono contare:
i poveri si abbracciano, non si contano.
Eppure v’è chi tiene la statistica dei poveri e ne ha paura: paura di una pazienza che si può anche stancare,
paura di un silenzio che potrebbe diventare un urlo,
paura del loro lamento che potrebbe diventare un canto,
paura dei loro stracci che potrebbero farsi bandiera,
paura dei loro arnesi che potrebbero farsi barricata.
E sarebbe così facile andare incontro al povero!
ci vuoi così poco a dargli speranza e fiducia!
Invece, la paura non ha mai suggerito la strada giusta».

La buona comunicazione nasce dal rapporto vero, autentico con le persone. Dalla rinuncia a ogni arroccamento, all’idea che basti comunicare tra di noi, parlare tra di noi, chiuderci tra di noi. Dividere il mondo in noi e gli atri, costruire un muro tra noi e gli altri, e dunque impedire la comunicazione, la relazione tra noi e gli altri.

Su questa questione mi sono più volte aggrappato alle parole San Giovanni Paolo II, che certo non era un relativista, ma semmai un uomo che credeva nella verità rivelata di un Dio del quale era rappresentante in Terra. Sono parole pronunciate in uno dei suoi messaggi per la Giornata mondiale per la Pace, quello del 2002, pochi mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle: «Bisogna fuggire dalla tentazione di imporre agli altri la propria visione della verità. Perché la verità, anche quando la si raggiunge – e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile – non può mai essere imposta, ma solo proposta. Bisogna comprendere che imporre agli altri, con la violenza, quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’uomo e fare oltraggio a Dio».

Non c’è comunicazione se non c’è rapporto con gli altri. Relazione. Non c’è buon giornalismo se non c’è capacità di ascolto. Chiudersi in se stessi – scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (87-88-89) – significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza… Questa è credo la comunicazione che evita sia di “riempire” che di “chiudere” di cui parla il Papa. «Si “riempie” – ci ammonisce il Papa – quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si “chiude” quando, invece di percorrere la via lunga della comprensione, si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale, è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. Aprire e non chiudere: ecco il compito del comunicatore».

Solo questo approccio può rompere il velo dell’ipocrisia, portare nelle case realtà che vorremmo forse non conoscere. Togliere l’alibi di poter dire “non sapevo”, “non potevo sapere”, “non mi riguarda”.

Christian Amanpour sostiene che «Il compito del giornalista è raccattare una storia in una situazione in cui la verità non è sempre appurabile». E che «l’unica esclusiva che possiamo veramente difendere è quella che ci deriva dal rapporto vero, diretto, con le persone». È una sana lezione di umiltà fatta da una grande giornalista. Ed è anche un modo di rispondere a chi racconta il mondo per stereotipi, racconta ad esempio la crisi solo come un problema finanziario del mondo sviluppato. Numeri sganciati dalle persone diventate anche esse numeri.

«Oggi – ce lo ricorda il Papa – l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare». È una deriva che viene favorita anche dai mezzi di comunicazione. Cioè anche da noi. Non possiamo tirarci fuori. “Il Denaro” viene raccontato come un “idolo”: «Ideologie, che promuovono la autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» vengono spacciate come verità assolute e incontrovertibili. Forse per raccontare la crisi dovremmo opporci a questa «tirannia invisibile, a volte virtuale» delle leggi del mercato dove, come ci ricorda spesso il Papa, «il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale» mentre «quello della maggioranza si indebolisce», la «corruzione tentacolare ha assunto dimensioni mondiali» e «l’evasione fiscale egoista» sembra sempre riguardare altri da noi.

Parlare di crisi, raccontare la crisi, vuol dire scegliere la prossimità come criterio per comprendere, per capire, per agire, per scegliere. Non c’è peggior giornalista di chi crede di sapere già tutto, incasellando storie e persone in schemi astratti. O di chi addomestica la realtà per renderla più simile a come la vorrebbe. Nella comunicazione – ci ha ricordato il Papa – il peccato più grave è quello dal quale più facilmente ci assolviamo: è la disinformazione, perché ti porta a sbagliare, all’errore; ti porta a credere soltanto una parte della verità. Ma una mezza verità è una bugia tutta intera, come recita un antico proverbio yiddish.

La comunicazione è un modo per cambiare il mondo cambiando le persone prima delle leggi. Cambiando il modo di vedere la realtà. Cambiando la prospettiva. Una fede autentica – ci dice Papa Francesco – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla Terra.

«La Chiesa – diceva Papa Benedetto – non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia». Ma a noi chi piace seguire? – ci domanda papa Francesco. Ecco allora la domanda chiave da porre a stessi nell’esercizio quotidiano della responsabilità: «A noi chi piace seguire?». Noi con chi vogliamo entrare in relazione? E per condividere cosa?

Non sempre le parole riescono a esprimere tutto. Ci siamo talmente abituati a pronunciarle che le abbiamo consumate. Ma ce ne è una su cui vale la pena di fermarsi un po’, che parla del nostro vivere insieme e di cosa dovremmo raccontare, insegnare, seguire. In italiano è “condividere”, dividere in piccole parti un tutto, ripartire gioia e dolore nella stessa misura. In inglese è to share. Riguarda le cose che viviamo e che raccontiamo. I valori che dobbiamo proporre e non imporre. Il dialogo che dobbiamo cercare. La consapevolezza di essere parte comunque di un destino comune. E riguarda lo share televisivo, che è o dovrebbe essere anche esso una comunione, una condivisione. Sempre imperfetta, sempre in divenire, sempre in ricerca.

Ad alcuni potrà sembrare che molte delle cose raccontate testimonino soprattutto il fare e il disfare del tempo; l’impossibilità dell’impresa. Ma solo a chi non capirà il senso del capovolgimento di valori incarnato dal cristianesimo. Il nostro essere sempre e comunque servi inutili e però chiamati a questo compito di condivisione. Perché nulla di quel che è fatto è perduto. E la chiave di tutto è tornare all’uomo.

Riflettere sull’uomo. E sulle ragione per cui Dio si è fatto uomo, e si fa uomo ogni giorno nelle persone che incontriamo. Per dirci – e qui uso le parole di un mio amico prete di favela brasiliano, Wilson Groh – che la persona non si riduce a un oggetto di mercato; che la giustizia è la via per raggiungere la pace tra i popoli; che le relazioni, quanto più umanizzate, rivelano la forza della Sua divinità.

Per far fronte al modello consumista, concentratore ed escludente che globalizza l’economia, i beni nelle mani di pochi, a scapito di milioni di persone senza accesso ai diritti fondamentali sul pianeta Terra. Per fare l’esperienza della corporeità e sperimentare i dolori, le sofferenze, le angosce di ogni essere umano e dare un senso a tutto ciò che non è. Per salvare il rapporto Creatore-creatura.

In conclusione sta a noi andare avanti. Come dice un antico proverbio andaluso, «la strada, viandante, non è mai tracciata: siamo noi a tracciarla camminando».

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