rassegna stampa

Così la Chiesa torna a offrire un progetto di vita per l’uomo

di Andrea Fagioli

Il radicamento delle assemblee della Chiesa italiana nel terreno del Concilio, l’eredità di Verona 2006, il legame con il magistero di papa Francesco: le suggestioni dell’evento di Firenze 2015, in programma fra tre mesi, secondo il cardinale Betori

Nell’incontro veronese, nove anni fa, «i cattolici italiani vollero affrontare il grande interrogativo della crisi antropologica che andava scuotendo le coscienze e gli assetti sociali e che ancora è lungi dall’aver mostrato tutte le sue conseguenze». Oggi si tratta sempre di parlare alla persona umana con una proposta «che desideriamo sia significativa nel tempo che ci è dato di vivere. Vogliamo proiettare ancora la luce di Cristo, l’uomo nuovo, sull’umanità di questi nostri anni».

Parlando di Convegni ecclesiali nazionali dobbiamo fare attenzione a non accentuare l’assoluta continuità tra l’uno e l’altro, che potrebbe impedire di scorgere la specificità di ciascuno. Al tempo stesso è bene non accentuare l’assoluta specificità, che potrebbe nascondere il filo che pure lega questi eventi nell’arco ormai di quarant’anni.

Con il cardinale Giuseppe Betori, alla luce anche di quanto emerso nel recente dialogo con il direttore Marco Tarquinio il 14 luglio a Bibione in occasione della Festa di Avvenire, torniamo a ragionare proprio di continuità e discontinuità tra i decennali appuntamenti della Chiesa italiana in vista del prossimo, a novembre, nel capoluogo toscano.

«La continuità – a giudizio dell’arcivescovo di Firenze – è evidente nel legame che ciascun Convegno ha con il Concilio Vaticano II. Questo è fin troppo chiaro nel primo dei Convegni, quello del 1976, voluto da Paolo VI e dai vescovi italiani nell’ottica che gli venne offerta dall’allora segretario generale della Conferenza episcopale italiana, monsignor Enrico Bartoletti. L’8 dicembre 1975 Paolo VI aveva pubblicato l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, in cui aveva inteso riprendere la finalità pastorale che Giovanni XXIII aveva dato al Concilio nell’orizzonte dell’evangelizzazione del mondo contemporaneo. Lo ricorda lui stesso, nell’esordio dell’esortazione, quando afferma che gli obiettivi del Concilio Vaticano ‘si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo’. Aggiungendo che, ‘per dare una risposta valida alle esigenze del Concilio, che ci interpellano, è assolutamente necessario metterci di fronte a un patrimonio di fede che la Chiesa ha il dovere di preservare nella sua purezza intangibile, ma anche di presentare agli uomini del nostro tempo, per quanto possibile, in modo comprensibile e persuasivo’. A dieci anni dalla chiusura del Concilio è sempre più evidente che ‘evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda’».

Questo è quanto i vescovi italiani tradussero in quel decennio con il programma pastorale «Evangelizzazione e sacramenti », di cui il Convegno ecclesiale del 1976 su «Evangelizzazione e promozione umana» costituisce, secondo Betori, «un’esplicita declinazione nella prospettiva del rapporto tra Chiesa e società». Mentre anche «la modulazione delle tematiche dei Convegni nel succedersi del decennio, mantiene come istanza fondamentale quella dell’evangelizzazione, come accade peraltro anche nel variare dei piani pastorali decennali, ma si connette al mutare delle condizioni storiche del cattolicesimo italiano. Si cerca così di incrociare, nel Convegno del 1985 a Loreto, le istanze di ricomposizione ecclesiale e sociale dopo le tensioni che avevano ferito la Chiesa italiana e lacerato la società nel decennio precedente. Similmente, nel Convegno del 1995 a Palermo, si intende individuare modalità nuove della presenza dei cattolici nella società dopo la crisi del sistema dei partiti, a cui fino a quegli anni si era affidata una sorta di rappresentanza delle istanze valoriali e di coesione sociale».

Molto interessante, in vista del Convegno di Firenze, diventa il passaggio da Verona 2006. In quella occasione, infatti, «i cattolici italiani vollero affrontare il grande interrogativo della crisi antropologica che andava scuotendo le coscienze e gli assetti sociali e che ancora è lungi dall’aver mostrato tutte le sue inquietanti ma anche provocanti conseguenze. Lo fece quel Convegno invitando a ripensare l’approccio pastorale alla condizione umana non più a partire dalla classica tripartizione delle funzioni della Chiesa (annuncio, culto, testimonianza della carità), ma facendo perno sulle dimensioni costitutive della persona umana, colta al tempo stesso nella sua integralità, come soggetto sia della pastorale sia della edificazione degli assetti sociali, ma anche nell’articolazione delle sue dimensioni costitutive, di ciò che costruisce l’umano nella sua esperienza storica: gli affetti, il lavoro e la festa, la fragilità, la tradizione e la cittadinanza. Ambiti di una possibile revisione delle istanze e delle forme pastorali, che però occorre riconoscere non ha avuto significativa influenza nella prassi delle nostre comunità, ma ambiti anche di altrettanti campi di testimonianza del Vangelo come principio di una nuova umanità». Intuizioni e disegni ecclesiali e antropologico- sociali che però «sarebbe sbagliato ora archiviare, ritenendo che ciò che il Convegno di Firenze va prospettando ne rappresenti un superamento che da essi può prescindere. Al contrario, mi sembra – spiega ancora Betori – che le cinque vie, su cui la Traccia preparatoria del Convegno di Firenze invita a incamminarci (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare), possano essere assunte come modalità con cui rendere dinamico l’approccio all’umano che le cinque dimensioni di Verona esplicitavano nelle sue categorie fondamentali». Del resto l’oggetto ultimo non sembra essere smentito: «Si tratta sem- pre dell’uomo e del progetto che vogliamo sia significativo per lui nel tempo che ci è dato di vivere. La luce di Cristo, l’uomo nuovo, che vogliamo proiettare sull’uomo del nostro tempo, va a illuminare quelle dimensioni di vita che a Verona furono articolate nel modo che sappiamo, ma vuole farlo non per offrire una visione statica dell’umano come una realtà data fuori del tempo, bensì per chiamare a un progetto, in cui il farsi dinamico, espresso dai cinque verbi delle ‘vie’ di Firenze rivela tutto lo spazio dell’impegno che è chiesto». A giudizio di Betori siamo nel pieno dell’orizzonte indicato da papa Francesco, che nella Evangelii gaudium invita a considerare il tempo superiore allo spazio, chiedendoci «di occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi», come pure a ritenere che la realtà è più importante dell’idea, vale a dire «evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza». Si tratta di «vie di esperienza, illuminate dalla parola fatta carne, Gesù, e che – conclude l’arcivescovo di Firenze – vanno tradotte in percorsi di vita che mostrino a tutti una pienezza di umano che risplende della novità del Vangelo».

da Avvenire, 2 agosto 2015

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