rassegna stampa

«Don Milani, un babbo che ci ha insegnato la dignità»

Fra i trenta incontri per i delegati del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze che si sono svolti ieri pomeriggio, la chiesa di San Michele Visdomini, a pochi passi dalla Cattedrale di Firenze, ospitato quello dedicato a uno dei “testimoni del Novecento”: don Lorenzo Milani (1923-1967), passato alla storia come il “parroco di Barbiana”. Durante l’incontro è stata proposta una riflessione elaborata dal Gruppo “Don Lorenzo Milani”, che ha come referenti Maresco Ballini e Mario Rosi, allievi della Scuola popolare fondata da don Milani a San Donato di Calenzano. Il parroco di Barbiana raccontato dagli ex allievi della “Scuola popolare” di San Donato a Calenzano. «Voleva che fossimo cristiani attivi nella Chiesa ma al tempo stesso anche autonomi».

Don Lorenzo aveva un grande senso religioso della vita, alimentato dallo studio della Parola di Dio. Per avvicinarsi il più possibile alle fonti originali, a San Donato, studiò anche l’ebraico, mentre era a letto malato di tubercolosi. Non voleva perdere la comunione con Dio nemmeno per poco tempo. Per questo si confessava spesso e cercava di educarci a fare lo stesso.

Nella Chiesa riuscì a conciliare la più ampia autonomia pastorale con il dovere di obbedire al vescovo. Studiava a fondo la realtà in cui stava operando. Poi assumeva le più ardite decisioni confidando nella «grazia di stato» e sul dovere di dare ai suoi atti la massima efficacia. Se richiamato era pronto all’obbedienza, affidandosi alla volontà di Dio.

A noi insegnava ad essere credenti attivi nella Chiesa e anche autonomi in tutte le materie che non attengono alla fede e alla morale. Nei rapporti con la gente era intransigente sul rispetto della verità da dire in faccia senza reticenze anche se scomoda, anteponendola sempre alla cosiddetta carità cristiana. Riusciva a testimoniare una coerenza rigorosa tra pensiero, parola e azione attribuendo importanza fondamentale all’esempio.

La sua dedizione verso i parrocchiani era totale e il suo stile di vita si conformava su quello degli operai e dei contadini più poveri. Ci voleva bene come un babbo. Non ci ha mai chiamati allievi ma figlioli. Noi si contraccambiava considerandolo davvero il nostro secondo babbo. Ci esortava a rispettare la nostra dignità umana e a non offenderla banalizzando la vita, invitandoci a mirare in alto verso ideali di bene, di vero, di giusto, di bello. A praticare valori di amicizia, accoglienza, solidarietà, pace. Poi a essere coerenti con questi valori nelle decisioni di ogni giorno, facendo prevalere su tutto il primato della coscienza.

Ci ammoniva inoltre di utilizzare bene il tempo, prezioso dono di Dio che passa e non torna. Sprecarlo è una colpa sociale e per i credenti anche un peccato. Insegnava il dovere della solidarietà e dell’impegno sociale e si adoperava particolarmente per sensibilizzare le coscienze circa la gravità delle colpe di omissione, con la conseguenza di far sentire in colpa chi non si adoperava a portare il suo contributo all’edificazione di una società più giusta. Doppiamente colpevole doveva ritenersi il cristiano che, così facendo, ometteva anche di operare alla costruzione del Regno di Dio.

da Avvenire, 13 novembre 2015

 

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