rassegna stampa

Francesco: per la gente, tra la gente

di Mimmo Muolo

Prato e Firenze le tappe dell’intensa giornata toscana del Papa. Nelle parole e nei gesti l’invito alla Chiesa italiana perché abbia «il volto di una mamma, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». No all’ossessione del potere, anche quello che sembra utile e funzionale. «Serve una rinnovata passione missionaria»

Quando le parole sono importanti. Quelle di papa Francesco, nelle tre tappe pubbliche della sua visita a Prato e Firenze, sono «semplici e pratiche» come il Vangelo da cui prendono spunto. Ma hanno lo splendore dei tanti monumenti delle due città toscane, toccate in meno di dieci ore di itinerario complessivo. Parole come «umiltà, disinteresse e beatitudine», ma anche «verità e prossimità», «dialogo, giovani e creatività». E poi aggettivi come «inquieta, accidentata e sporca», piuttosto che «autoreferenziale» (tutti riferiti alla Chiesa), verbi come «accarezzare, accompagnare». E naturalmente «partire», «uscire», «mettersi in cammino». Cosicché alla fine di una giornata intensa e gioiosa (che ha mostrato a tutti – a dispetto di alcune previsioni – la sintonia crescente tra Francesco e le diocesi italiane), quelle parole, quegli aggettivi, quei verbi, raccordati secondo la mens del Pontefice e messi a confronto con i sostantivi di verso contrario (potere, denaro e tentazioni – pelagianesimo e gnosticismo) appaiono per quello che in realtà sono: un percorso consegnato con cuore di padre alla Chiesa «di questo straordinario Paese». Un’indicazione di metodo e di contenuti da attuare insieme. In sostanza l’avvio di un “Sinodo” – parola chiave forse più di ogni altra –, cioè, letteralmente, di un cammino comune da declinare a tutti i livelli. Francesco inizia di buon mattino la visita che lo porterà nel cuore del V Convegno ecclesiale nazionale. Alle 8 è già a Prato dove tiene il primo discorso dal suggestivo pulpito esterno del Duomo. Parla di «una rinnovata passione missionaria», chiede di «accompagnare chi ha smarrito la via, di piantare tende di speranza, dove accogliere chi è ferito e non attende più nulla dalla vita». «Non esistono lontani che siano troppo distanti – aggiunge –, ma soltanto prossimi da raggiungere». Quindi invita alla integrazione di ogni persona. E mette in guardia verso i reali nemici, che «non sono mai gli altri, ma gli spiriti del male». «Dobbiamo cingerci di verità. Non si può fondare nulla di buono sulle trame della menzogna e della mancanza di trasparenza».

Parole che servono da prodromo al grande discorso, un vero e proprio affresco, davanti ai partecipanti al V Convegno nazionale della Chiesa italiana. Giunto in Duomo, dopo essere passato anche lui attraverso il Battistero, Francesco, per prima cosa invita ad alzare gli occhi verso l’affresco vero, quello che ricopre la parte interna della grandiosa cupola del Brunelleschi. Lì si trova la parola culmine di tutta la storia. Anzi, due parole, ricorda il Papa “Ecce homo”. «Un angelo gli porta la spada – così il Pontefice descrive la scena che sta sospesa sulle teste di tutti –, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione», perché «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Tutte le altre parole derivano da qui. Compreso l’umanesimo cristiano che il Pontefice tratteggia in tre vocaboli, anzi in tre «sentimenti». Umiltà: «L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria dignità, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti». Disinteresse: «L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale». Non si rinchiude nelle strutture che «ci danno una falsa protezione» o «nelle norme che ci trasformano in giudizi implacabili». Beatitudine: «Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo». Conosce la ricchezza della solidarietà, del sacrificio del lavoro quotidiano e anche quella delle proprie miserie, che «tuttavia – dice il Papa – vissute con fiducia nella Provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile».

Naturalmente, però, vi sono poi anche le parole in negativo. Da evitare perché contraddicono l’umanesimo cristiano. La prima tra quelle citate è «potere». «Non dobbiamo esserne ossessionati, anche quando prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste». E ancora: «Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, di immagine, di denaro». E qui Francesco torna a ripetere una sua profonda convinzione. «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa ammalata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze ». La seconda parola da evitare è tentazione. «Ve ne propongo solo due – scherza il Papa – non quindici come alla Curia romana». La tentazione pelagiana, innanzitutto, che «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte ». Inoltre «è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate». La Chiesa italiana, esorta, deve fare come i grandi esploratori italici. Navigare in mare aperto: «Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per paura di perdere qualcosa. Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». In definitiva, «Chiesa con il volto di mamma».

Francesco conclude il suo discorso con le consegne: «Ai vescovi chiedo di essere pastori. Nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo». Ai giovani «di essere costruttori di un’Italia migliore». A tutti raccomanda «la capacità di dialogo e di incontro», mettendo in conto anche il conflitto, se necessario, e comunque la necessità di «dare risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico». Infine, nella Messa allo stadio “Franchi”, torna a mettere l’accento sulla verità: «Andare controcorrente e superare l’opinione corrente, che anche oggi non riesce a vedere in Gesù più che un profeta o un maestro». La verità è un’altra. E a Firenze anche le pietre lo sanno. Il Papa ieri le ha trasformate in parole. Che da oggi segneranno il cammino comune della Chiesa italiana.

da Avvenire, 11 novembre 2015


 

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