rassegna stampa

In Cattedrale, “Gesù è il nostro umanesimo”

“Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo”. Ad assicurarlo è stato il Papa, nel discorso pronunciato nella cattedrale di Santa Maria del Fiore davanti ai 2.200 delegati che partecipano al quinto Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana. “È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato”, ha proseguito Francesco commentando le immagini della cupola della cattedrale: “Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Gesù. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: ‘Voi, chi dite che io sia?’”.

“Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati”. Lo ha detto il Papa dalla cattedrale di Firenze: “Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda”. Dio, ha proseguito Francesco citando sant’Anselmo e Ignazio di Loyola, “diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto”. “Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato”, ha ammonito: “E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto”. “Non voglio qui disegnare in astratto un ‘nuovo umanesimo’, una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei ‘sentimenti di Cristo Gesù’”, ha spiegato il Papa ai convegnisti: “Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni”.

“L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria dignità, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti”. Sono nette le parole del Papa, che ha esortato i partecipanti al Convegno di Firenze a praticare come prima virtù l’umiltà. “Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra”, ha ammonito Francesco: “La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre”, ha assicurato.

“Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse”. Lo ha detto il Papa, che da Santa Maria del Fiore ha rinnovato l’invito di San Paolo: “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”. “Più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto”, il suo invito: “L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio”. “Evitiamo, per favore, di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli”, la preghiera del Papa sulla scorta dell’Evangelii Gaudium. “Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare”, la consegna del Papa: “La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda”.

“Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino”. Con queste parole il Papa ha introdotto la terza virtù necessaria per il cristiano: la beatitudine, percorrendo la quale “noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina”. “Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito”, e “per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà”, ha ricordato Francesco: “Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile”. “Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al successo”, ha ammonito il Papa, secondo il quale “per essere beati, per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto”, perché “la beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo”.

“Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa”. È il monito del Papa da Santa Maria del Fiore. “Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso”, ha ammonito: “Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione”. “I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste”, le parole del Papa. Le beatitudini, invece, “sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente”. “Umiltà, disinteresse, beatitudine”: “Una Chiesa che presenta questi tre tratti – ha spiegato il Papa – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente”. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”, ha ribadito il Papa: “Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”.

“La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo”. Lo ha assicurato il Papa ai 2.200 delegati riuniti nella cattedrale di Firenze, messi in guarda da alcune tentazioni. “Sono solo due, non è un elenco, non vi dico quelle quindici che ho detto alla Curia”, ha scherzato a braccio il Papa, che ha detto no alla tentazione del pelagianesimo, che “spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene”. “Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte”, ha ammonito Francesco: “Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività”. “Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”, il monito del Papa. L’altra tentazione da rifuggire è quella dello gnosticismo, che “porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello”: “Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo”.

“La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività”. È chiara e netta la “ricetta” del Papa per la Chiesa italiana, esortata, da Firenze, a lasciarsi “portare dal soffio” dello Spirito, “potente e per questo, a volte, inquietante”. La Chiesa italiana, l’invito di Francesco, “assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: ‘Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno’”.

“Ai vescovi chiedo di essere pastori, solo questo: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi”. È la consegna del Papa alla Chiesa italiana, a cui ha rivolto uno dei più lunghi discorsi del pontificato. “Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi”, ha detto Francesco: “Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente”. “Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo”, l’augurio papale: “Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori”.

“La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri”. Lo ha ricordato il Papa, che nel discorso pronunciato nella cattedrale di Firenze ha citato come esempio ai rappresentanti della Chiesa italiana in tutte le sue articolazioni anche la “semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone”: “Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente”, le parole del Papa, che ha sottolineato come “di sé don Camillo diceva: ‘Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro’”. “Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto”, la ricetta del Papa: “Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte”.

“Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”. È questa, per il Papa, la risposta alla domanda: “Che cosa dobbiamo fare? Che cosa ci sta chiedendo il Papa?”. “Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste”, l’invito di Francesco riferito alla rappresentazione del Giudizio Universale: “Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: ‘Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi’. Ma potrebbe anche dire: ‘Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato’”. “Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità”, ha detto Francesco: “Sono poche parole, semplici, ma pratiche”.

“Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza”. È l’augurio per la Chiesa italiana, alla quale, dalla cattedrale di Firenze, il Papa ha raccomandato l’invito centrale dell’Evangelii Gaudium: “L’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune”. “L’opzione per i poveri è forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa”, ha detto Francesco citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: “I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo sofferente”, ha assicurato il Papa.

Firenze, “città della bellezza”, ha messo la bellezza “a servizio della carità”. Lo ha detto il Papa, menzionando dalla cattedrale di Santa Maria del Fiore lo Spedale degli Innocenti: “Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate”. “Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori”, ha proseguito: “Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. La Chiesa madre ha l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. Il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti”.

“Dialogare non è negoziare”. Lo ha detto il Papa, che da Firenze ha puntualizzato che “negoziare è cercare di ricavare la propria fetta della torta comune”, mentre dialogare è “cercare il bene comune per tutti, discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti”. “Dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale”, l’invito di Francesco: “Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile”. “La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media…”, ha assicurato il Papa: “La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Non dobbiamo aver paura del dialogo: il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”, perché “il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze”.

“La Chiesa sappia dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune”. Ne è convinto il Papa, che da Santa Maria del Fiore ha ricordato che “i credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”. Di qui l’appello di Francesco rivolto soprattutto ai giovani: “Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire”.

“Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per un’Italia migliore”. È l’invito del Papa, che da Santa Maria del Fiore ha proseguito: “Non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni”. “Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere”, ha proseguito Francesco: “Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo”. “Uscite per le strade e andate ai crocicchi”, l’esortazione papale: “Tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso. Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, zoppi, storpi, ciechi, sordi”. “Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”, la consegna del Papa.

“Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”. Lo ha confessato il Papa, al termine del discorso rivolto ai partecipanti al Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana, riuniti nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. “Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza”, ha proseguito Francesco nel suo discorso, durato quasi un’ora: “Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”. “L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere – le parole del Papa riferite al tema del Convegno – afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita molto dura”.

“In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni”. È l’ultimo invito rivolto dal Papa ai 2.200 delegati della Chiesa italiana riuniti a Firenze per il loro quinto Convegno ecclesiale. “Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio”, le parole finali di Francesco: “Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti”. “Siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile”, l’esortazione papale: “Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese”.

Dopo aver lasciato la basilica di S. Maria del Fiore, cattedrale di Firenze, il Papa si è recato nella vicina chiesa della Santissima Annunziata, dove ha salutato i malati e i disabili e ha recitato con loro la preghiera dell’Angelus. Poi il pranzo, strettamente privato come il momento precedente, con i poveri nella mensa di San Francesco Poverino, nella stessa piazza della basilica.

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