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La voce del silenzio

di Piero Coda

Gli esseri umani del terzo millennio, per continuare a essere e a sperimentarsi come umani, anzi per reimparare a esserlo con gusto e competenza, sono chiamati innanzitutto a rispondere al desiderio più profondo che li abita, perché abita l’uomo in quanto uomo: l’interiorità.

Un umanesimo che sia tale non può fare a meno, ad esempio, della lezione di Agostino d’Ippona. Che ha saputo coniugare la “fuga da solo a solo” in cui culmina la ricerca di sé nella mistica del “greco” Plotino con l’esperienza e l’intelligenza spirituale di Gesù di Nazareth che i Vangeli ci restituiscono condensata nella sua preghiera: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).

Di qui è nato, nelle sue svariate espressioni, l’umanesimo di matrice cristiana. Che ruota attorno all’acquisizione decisiva dell’interiorità. Ed è qui il punto anche oggi discriminante.

Riscoprire il paesaggio impervio, ma vivido e corroborante, dell’interiorità significa in verità riscoprire che il segreto della propria identità è custodito nel profondo e nell’oltre. Nel conoscere, cioè, di essere conosciuti, e voluti, e desiderati, e fasciati anche nelle proprie più intime e dolorose ferite.

Per questo, per reimparare a stare con sé stessi o meglio a essere sé stessi, per reimparare così a stare o meglio a essere con gli altri, occorre reimparare ad ascoltare la voce sottile del silenzio. Perché è di lì, dal silenzio, che nasce ogni parola gravida di senso, di luce, di amore. Il periodo estivo, coi suoi momenti d’interruzione del ritmo quotidiano di vita e di lavoro, può diventare tempo propizio per questo salutare esercizio dell’anima.

Agostino – in un resoconto intenso di ciò che ha vissuto, agli albori del suo cammino di discepolo di Gesù, nel ritiro a Cassiciacum – parla di soliloquium, un eloquio che è un “asolo”. Ma non perso nel vuoto, bensì musicato sulla trama di quel silenzio in cui risuona una voce che viene da “dentro” venendo da “oltre”. Una voce che è l’invito ad aprire gli occhi a uno sguardo su di sé che si sprigiona dallo sguardo di un Altro – sguardo che penetra, accoglie, offre a piene mani amore e speranza.

Si tratta, in una parola, di imparare di nuovo a frequentare la solitudine che ascolta, l’interiorità che è aperta. È l’interiorità che attira “oltre”: come una fiaccola di luce in lontananza che illumina l’oscurità dell’abisso che è nell’io perché l’io, in verità, dimora in esso.

«L’abisso chiama l’abisso», canta il Salmo. L’abisso che è dentro di noi chiama l’Abisso che è oltre noi. È qui che l’uomo dimora presso sé stesso.

Fonte: Città Nuova

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