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Le 5 vie… in un orizzonte vocazionale

dalla Consulta Nazionale dell’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni (CEI)

USCIRE: Non esiste, forse, un verbo più “vocazionale” di questo. Di per sé già evoca un movimento, un moto da luogo, una chiamata. E, al tempo stesso, richiama tante – molteplici e variegate – icone bibliche che aiutano a comprenderlo meglio.

La Genesi racconta che tutto il creato “esce” dalle mani di Dio: è frutto di un progetto, un disegno, una chiamata dal nulla all’esistenza. Sempre nella genesi c’è il primo uomo che “esce” dal nascondiglio in cui cerca di coprire la sua nudità, il peccato, la vergogna. “Dove sei?” (Gen 3,9): è il Signore che chiama allo scoperto, che vede oltre le nostre foglie di fico e ci invita ad “uscire” dalle nostre paure.

E, ancora, l’icona di Abramo, la sua vocazione: “vattene dalla tua terra”, cioè “esci”, “verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1). È solo la prima delle innumerevoli chiamate che si perpetuano da millenni nella Storia, pur nella novità e originalità di ogni storia. È “uscire” dai propri schemi, dalle sicurezze, comodità, per andare lì dove il Signore indica.

“Uscire” vuol dire anche lasciare: la propria casa, la città, la famiglia, il lavoro, le reti, il padre con i garzoni, il banco delle imposte… come gli apostoli. E ciò non vale solo per il sacerdozio e la vita consacrata, ma anche per gli sposi: ognuno lascia qualcosa di sé, del proprio spazio, della propria individualità. “Esce” da se stesso per andare incontro all’altro: “per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola” (Mt 19,5).

ANNUNCIARE: Oggi sono tanti, troppi, gli annunci proposti e l’offerta è tale che la domanda diventa sempre più attenta, selettiva, diffidente.

Prima ancora del messaggio da proporre, prima ancora di formulare il contenuto da porgere, chi annuncia deve rivolgersi direttamente alla persona che ha di fronte, proprio a quella e non ad un’altra oppure ad un’indistinta e anonima massa di possibili interlocutori. L’annunciatore deve entrare in contatto: l’annuncio è tale solo se è a tu per tu, personale. Solo così sarà vocazionale nel senso pieno del termine. Nel senso di chiamare. Sì, proprio te. Per dirti semplicemente che “c’è ancora posto” (Lc 14,22). Nella parabola di Luca è uno dei servi a dirlo, cioè uno di noi che “lavoriamo” per il Signore, nella Sua messe, nella Sua Chiesa.

È questa la buona novella, l’annuncio gioioso da dare a ogni persona che incontriamo: “c’è ancora posto!”. C’è il “tuo” posto che ti aspetta (cfr. Gv 14,2-3) e non devi far nulla per meritarlo: è un invito che ti precede, che ti sorprende, che ti supera.

È il Signore che viene a prenderti là dove sei, “per le piazze e le vie della città” (Lc 14,21) e non importa che tu sia povero, storpio, cieco o zoppo, giovane o vecchio. Non importa. Perché Lui ti ha amato per primo (cfr. 1Gv 4,10). Questo è l’annuncio.

ABITARE: A prima vista appare un verbo così lontano dal taglio vocazionale, perché “chiamare” ci sembra che possa far rima solo con “andare”, con un movimento, uno slancio, una scelta. “Abitare”, invece, evoca staticità, sedentarietà, essere fermi, mettere radici.

Eppure Gesù chiamò gli apostoli “perché stessero con lui” (Mc 3,14) e dopo “per mandarli a predicare”. Il rischio è proprio quello di partire per annunciare ed educare prima di aver sostato, “abitato” con Lui.

“Abitare” indica familiarità, comunanza di spazi e di abitudini: siamo chiamati prima di tutto a imparare da Colui che è mite e umile di cuore, a trascorrere del tempo con Lui, per assimilarne il modo di pensare, di parlare, di agire, di guardare gli altri. Come una coppia di sposi anziani finisce per assomigliarsi nelle abitudini, nel linguaggio, nei gesti, così accade all’apostolo che “abita” con il Maestro.

“Abitare” evoca anche casa, accoglienza: come non pensare alla casa di Bethania, la casa dell’amicizia, in cui Gesù si è recato con tanto piacere ed è stato accolto con calore fraterno? È un invito ad “abitare” le nostre relazioni, a viverle fino in fondo nell’autenticità, nel rispetto, nell’accoglienza, perché con noi l’altro possa sentirsi a casa.

EDUCARE: Nell’ottica vocazionale, “educare” non significa insegnare. Recuperando l’etimologia latina è un “trarre fuori”, condurre fuori, far venire fuori… quello che è il progetto di Dio già scritto nel cuore di ogni uomo.

Spesso siamo chiamati ad “educare”, a guidare, altre persone nel cammino nella fede. Gesù stesso, il Maestro, ci indica il vero modo di educare, il più efficace: “venite e vedrete” (Gv 1,39). E il brano di Giovanni continua così: “andarono dunque e videro dove dimorava e quel giorno rimasero con lui”. Poche parole, ma concretezza di vita: questo è il metodo educativo di Gesù.

TRASFIGURARE: È un verbo che evoca luce, gloria: come non pensare alla trasfigurazione di Gesù e alla Sua risurrezione? Al Cielo a cui siamo chiamati?

È questa luce che deve illuminare la nostra quotidianità: è la gioia di una vita da risorti il nostro biglietto da visita più credibile. La nostra testimonianza deve essere una segnaletica per il Cielo, la garanzia che Cristo la vita te la cambia davvero, non solo a chiacchiere, ma “con i fatti e nella verità” (cfr. 1Gv 3,18).

Ogni percorso vocazionale ha le proprie croci, che trovano senso e significato solo nell’alba di Pasqua. Ogni storia vocazionale conosce la tentazione di costruire sul Tabor la propria tenda. E invece siamo chiamati ogni volta a “uscire” da noi stessi, dalle nostre sicurezze e… a ricominciare!

Marianna Russo
don Nico Dal Molin, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni CEI

 


APPROFONDIMENTI

Nico Dal Molin, Per una pastorale vocazionale sapienziale e generativa, in «Rassegna di Teologia», Aprile 2015.

 

 

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