rassegna stampa

L’uomo 2.0 distingue ancora se stesso?

di Umberto Folena

La libertà è un filo ben sottile. Alcuni negano che esista. Altri vi imbastiscono grovigli di retorica. È il caso della politica, che continua imperterrita a usare un lessico umanistico: libertà civili, onestà, impegno, autodeterminazione… tutte parole poste «al vertice dell’ordine dei fini», spiega don Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà teologica del-l’Italia settentrionale che ieri ha organizzato presso la sua sede un convegno di studio, La tecnica e il senso. Oltre l’uomo?, come contributo al Convegno ecclesiale del prossimo novembre a Firenze.

«Intanto l’economia va per conto suo». E anche la tecnologia. Vengono sottolineati continui condizionamenti specifici fino a far dire ad alcuni, appunto, che liberi non siamo mai perché sempre determinati. E allora, che ne è dell’uomo? Che ne è della «regia della nostra vita », per dirla con Sequeri?

Otto interventi, compresa l’introduzione del preside, tutti di alto profilo, talvolta ardui, roba da far girare la testa. Ma è inevitabile che così accada quando si vuole andare alle radici «dello stress» (Sequeri), di qualcosa che ancora non è stato messo a fuoco. Per il primo contributo, quello di Roberto Mordacci, preside della Facoltà di filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele a Milano, verrebbe voglia di rispolverare il titolo di un classico della fantascienza anni 60: un viaggio allucinante, zigzagando tra neuroni e sinapsi, al cuore della «rivoluzione neuroscientifica, determinata dall’accesso diretto non solo più al cervello, ma alle sue funzioni in atto». Una sorta di cannocchiale di Galileo è la fMRI (risonanza magnetica funzionale). Una rivoluzione «più radicale della genetica», perché i geni impiegano generazioni a cambiare, ma le modificazioni dell’attività neuronale sono subito visibili.

Mordacci apre le danze perché va al cuore della questione, un «problema antropologico a 360 gradi»: che ne è del nostro agire? Del senso che mettiamo nelle nostre azioni? E della loro autorialità? Nelle scelte morali, quando c’è da prendere una decisione, valgono più le emozioni o la ragione? Il sogno dei riduzionisti è approdare a una legge unificata della mente, e per certa neuroscienza dovremmo semplicemente smettere di parlare di libertà. Fine. Mordacci scuote il capo: «Gli esperimenti di neuroscienze – al San Raffaele da anni Mordacci ricerca fianco a fianco con i medici – mirano per lo più a negare la libertà, ma sono viziati da un errore metodologico di fondo. E vi sono esperimenti che mostrano una certa imprevedibilità nelle scelte». Ma la domanda resta appesa al famoso filo: tra cervello e coscienza, chi decide per primo?

Vincenzo Costa, professore di filosofia teoretica all’Università del Molise, a questo punto spalanca la finestra. Il suo è un approccio fenomenologico: per capire chi siamo non basta certo considerare la mente alle prese con se stessa, ma «mettere in luce l’esperienza che l’uomo fa». Bisogna spostarsi: dalla mente al mondo. Aprirsi agli altri, considerando ciò che accade nella mia testa assieme a ciò che accade attorno a me. Costa propone il primato del mondo e del tempo: «Nessuna psiche sarebbe mai sorta senza l’esperienza del-l’altro, da cui sgorgano tutti i concetti morali ». E l’esperienza di sé? Va conquistata, quindi è una distanza temporale: «Il futuro ci istituisce come persona perché ci interpella nel modo del: chi vuoi essere? Come vuoi usare quel tempo che sei? Chi desideri essere?».

Il filo della libertà sarà anche sottile, ma comincia ad apparire per quel che veramente è, una fune con tanti fili tenacemente avvolti tra di loro. Le neuroscienze sono sfidate: il cervello (coscienza d’accesso) va visto in rapporto con l’esperienza (coscienza fenomenica). Conclude Costa: «Bisogna sfuggire a un duplice fraintendimento: primo, che vi sia una natura umana che coincide con la nostra strutturazione biologica; secondo, che poiché siamo esseri interamente plasmabili non vi sia alcuna natura umana».

Fraintendimenti, sbilanciamenti, radicalismi… La sensazione è che occorra liberarsi, appunto, di ogni lettura troppo sbrigativa. Di luoghi comuni che assecondano i pregiudizi e per questo trovano fortuna. In questa direzione vanno forse letti gli interventi dei due biblisti, don Gianantonio Borgonovo (Facoltà teologica Italia settentrionale) e don Romano Penna (Università Lateranense). Il viaggio di Borgonovo sugli ‘inizi’, Genesi 1-3 ma anche gli antichi testi mesopotamici, rivela come il ‘dominio’ dell’uomo sul creato sia «rispetto e benessere per tutto il creato: come il re rappresentava il suo popolo e la sua terra in una valenza corporativa, così l’uomo per tutto il creato». Quello di Penna in Romani 8 è sulla caducità, ma anche sulla liberazione come «gloria dei figli di Dio» e sulla speranza: «Dalla schiavitù alla libertà », avendo i cristiani in Cristo «il proprio paradigma».

Il finale è una conclusione? No, è una nuova vertiginosa apertura affidata a don Duilio Albarello (teologia fondamentale e antropologia teologica), padre Marco Salvioli (professore di Teologia all’Università Cattolica) e il filosofo del diritto Paolo HeritierPerché poi, alla fine, le domande di fronte alle quali ci troviamo ogni giorno di più, sono il significato di maschio e femmina, padre e madre, bene e male, giusto e ingiusto. Dove sono i criteri per decidere? Dove (Albarello) «trovare un nuovo paradigma che permetta di comprendere l’umano»? La libertà è un filo, una fune, una matassa. Di fronte a tanta complessità potrebbe venir voglia di girare il capo dall’altra parte. Ma Sequeri ci tirerebbe amabilmente le orecchie: «Questo convegno è l’inizio di un soprassalto di generosità». E chi è generoso non si volta indietro.

da Avvenire, 25 febbraio 2015

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