contributi

Ministero diaconale e nuovo umanesimo

di Giovanni Chifari

L’espressione “nuovo umanesimo” è senz’altro il principale leitmotiv di questa singolare stagione ecclesiale. Un motivo conduttore che sembra esercitare un’irresistibile forza di attrazione monopolizzando articoli, studi, convegni e riflessioni come emerge chiaramente visitando il sito www.firenze2015.it. Impegno lodevole e spunti interessanti che si muovono nel variegato quadro di una quotidianità che segnala luoghi e spazi tipici in cui annunciare e vivere il nuovo umanesimo e poi riflessioni teologiche, pastorali nonché tutte le esperienze provenienti dai territori. Una notevole mole di notizie e di informazioni che genuinamente suggeriscono il desiderio di dare visibilità storica, concreta e fattiva a una fede cristiana che sa di esser chiamata a trasformare la realtà ma forse anche oggi vive la lacerante esperienza di un’incomunicabilità che a volte dà l’impressione di non riuscire a toccare menti e cuori di molti nostri contemporanei. Non si tratta della debolezza di un depositum che è accompagnato dal’inesauribile azione dello Spirito e dalla provvidente presenza della grazia che rendono questa sacra sorgente come luogo autentico e sempre fecondo per una rinnovata esperienza di Dio. Da un lato è evidente l’attuale deriva della parola umana che ha perso di incisività e pervasività dall’altro però se si carica la fede cristiana di una forte componente ideologica si rischia, come forse sta accadendo anche oggi, di non parlare più. Così l’espressione “nuovo umanesimo” può apparire d’un tratto impersonale e distante dai vissuti, non dice più nulla, anzi annoia. Una lezione in tal senso ci giunge da quanti, convertiti di recente alla fede cristiana, dichiarano che è proprio il sentimento di noia quello che sperimentano quando si accostano ai contenuti tradizionali della nostra fede. Per poter procedere nel cammino di conversione e quindi poter guardare con gli occhi di Dio quanto Egli stesso ha detto e fatto nella sua storia con l’umanità, è anche necessario attingere a mediazioni autentiche. Un aspetto che chiama in causa cristiani e chiese che quando vengono meno a questa diaconia invece di filtrare coprono, piuttosto di creare ponti dilatano la distanza. Il discorso sul nuovo umanesimo rischia di non sottrarsi a tale possibilità, tratteggiando una realtà irraggiungibile o un concetto carico di ideologia. Vagliando i vari contributi pervenuti al sito di Firenze 2015 si possono osservare diversi orientamenti, riflessioni che partono dall’uomo e altre che iniziano da Dio, vie entrambe ricche di spunti e suggestioni e non solo per l’antropologia teologica. Tuttavia per i discepoli di Cristo la via principale continua ad essere l’Evangelo, che il Risorto ha voluto fosse annunziato al mondo intero. Esso riempie il mondo e ci consente di incontrare quell’umanità di Gesù che poi ci conduce pian piano a riconoscere la sua divinità. Pensiamo all’incipit del Vangelo di Marco: “Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). L’uomo Gesù è il Cristo e Figlio di Dio. Similmente anche i versetti redazionali di Gv 20,31: “Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

Se procediamo secondo la Scrittura, saremo spinti a riformulare la domanda di partenza e a leggere il testo in modo infrabiblico. Si tratta di valorizzare la centralità di Cristo nella Scrittura e come la stessa Chiesa ci ha voluto annunciare la sua esperienza e la sua intelligenza di tutto ciò. In base a questa scelta il punto di partenza non può che essere la resurrezione di Gesù. E’ qui che si inaugura la nuova umanità, qui si spiega il cambiamento. Una realtà che ci interroga fin da subito su quanto effettivamente le nostre riflessioni antropologiche riflettano la resurrezione di Cristo, quanto lo stesso approccio etico sui “paletti invalicabili” prenda sul serio la resurrezione del Signore.

In Cristo crocifisso e risorto appare delineata quella che la lettera ai Colossesi definisce come la pienezza della creazione. Di Lui è detto che è il primogenito, che inaugura quindi qualcosa di nuovo, in un certo modo una nuova umanità. Tutto rimanda alla relazione con Cristo, nella cui umanità è il modello stesso di ogni creazione (Col 1,16), per cui se non si partecipa a tale relazione che sappiamo essere sanante e trasformante non si potrà affermare di esser parte di una nuova umanità. Il teologo biblico e padre redentorista F. X. Durrwell parlando della resurrezione di Gesù afferma che essa è parusiaca ed esprime la “pienezza ultima della creazione”, «una realtà ancora futura per l’uomo terrestre; è tuttavia in qualche modo all’interno di questo mondo, poiché tutto è ‘stato creato per mezzo di lui e in vista di lui’ (Col 1,16)» (Id., L’Eucaristia, sacramento del mistero pasquale, Ed. Paoline, 1983, pag. 31). Assenza e presenza che rinviano al servizio e alla missione della Chiesa. Sempre l’inno ai Colossesi continua dicendo: “Egli è il capo del corpo, della Chiesa” (Col 1,18) . Ciò significa che se la Chiesa è unita a Cristo diviene anch’essa luogo in cui si può vivere questa nuova creazione, in cui c’è una nuova umanità. Perché in Cristo risorto tutto sussiste, tutto è in armonia, ed Egli si trova nello stato di risorto, una dimensione definitiva, dalla quale non torna più indietro. La nuova umanità deve allora trovare visibilità storica nella Chiesa, poiché se essa è unita al suo Kyrios, se vive in Cristo, la nuova umanità c’è già.

La lettera agli Efesini aggiunge che il Cristo risorto riempie tutte le cose della sua presenza (Ef 4,9-10). Procedendo sulla linea tracciata dal prologo alla lettera ai Colossesi possiamo ritenere che i due movimenti spirituali che potranno favorire questa rinnovata comunione con Cristo e quindi di partecipare alla sua gloriosa resurrezione sono di riconciliazione e rappacificazione. “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Col 1,19-20). La Parola qui, come anche altrove, rimanda ad una realtà che è al tempo stesso luogo e sorgente di questa nuova umanità ma anche paradigma di ciò che è accaduto una volta per tutte con la resurrezione di Gesù. Parliamo dell’Eucarestia, ma come ci suggerisce Durrwell non intendiamo ad essa guardare con le categorie filosofico tomistiche ma con lo sguardo del risorto. Mi sembra che proprio qui, in questo spazio di confluenza tra Parola ed Eucarestia, ma nella luce della resurrezione, possa trovare intelligibilità il servizio dei diaconi e inoltre è proprio in questo luogo che si può leggere una relazione meno scontata e forse maggiormente profetica di un ministero diaconale risorsa di un nuovo umanesimo.

In effetti l’Eucarestia è il luogo in cui si manifesta “la potenza della resurrezione di Cristo (Fil 3,21) ma è anche, ricorda Durrwell, «l’effetto e il segno luminoso della signoria cosmica di Cristo nella sua resurrezione» (p. 84). Così come nella resurrezione di Gesù è tutta la Trinità a essere coinvolta, anche nell’Eucarestia essa è all’opera: «La trasformazione eucaristica è dunque un’operazione trinitaria. La potenza messa in opera non è una forza impersonale che cambia una sostanza in un’altra qualunque; l’azione consacratoria è unica, dell’unicità del mistero pasquale in cui il Padre genera il Figlio, risuscitandolo fin nella materialità di questo mondo e lo genera nella potenza dello Spirito, per donarlo alla Chiesa» (pp. 86-87). Questo significa che è il mistero pasquale che fa in modo che l’Eucarestia sia sacrificio, un mistero di cui essa è «il simbolo reale, l’incorporazione nella visibilità del mondo: esso assume gli elementi, li riempie di senso, fa della celebrazione eucaristica l’attualità del sacrificio di Cristo nella Chiesa» (p. 65). In questa attualità rientrano anche i diaconi se è vero che anche il servizio di Cristo, la sua Parola e il suo darsi a tutti, trovano luce nella Pasqua. Ecco il motivo per cui l’evangelista Giovanni non ci narra come gli altri le parole consacratorie dell’ultima cena ma ci racconta solo parole e gesti del servizio che Gesù rende ai fratelli. Allo stesso modo tutte le opere che scaturiscono da questa sorgente divengono segni di un regno di Dio che è arrivato e non va più via. Tratti tuttavia non evidenti ma pur sempre nascosti della una nuova umanità inaugurata dal Risorto. Don Giuseppe Dossetti commentando il valore dei segni che sono attribuiti ai discepoli di Cristo, dopo la sua Ascensione al Padre, ricorda che essi ci sono, come frutti della resurrezione ma sono dal Signore stesso velati, a motivo della sua misericordia. Un paradigma profetico per un servizio inevidente che può trasformare il mondo ed essere risorsa per una Chiesa testimone di una nuova umanità che incontra il Risorto nella Parola e nell’Eucarestia.


 

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Contributo apparso sul numero 192 (maggio-giugno 2015) della rivista Il diaconato in Italia, pp. 15-18.

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