contributi

Per un’etica dell’abitare e del condividere nella città dell’uomo

di Giancarlo Galeazzi

Un umanesimo ecologico in margine alla enciclica di Papa Francesco sulla cura della casa comune

Con la presente relazione intendo proporre alcune riflessioni per un’etica dell’abitare e del condividere in margine alla enciclica Laudato si’ che papa Francesco ha dedicato alla “cura della casa comune”: si tratta di indicazioni che sono finalizzate a cogliere la dimensione ambientale di un nuovo umanesimo, come risposta alla sfida ecologica. Sono riflessioni che si accompagnano pure ad alcune osservazioni, fatte non per criticare, bensì per affrontare criticamente i problemi posti a tema della sesta edizione delle Giornate di spiritualità e cultura, una bella iniziativa promossa dal MEIC delle Marche.

  1. 1. La dottrina sociale della chiesa

     Vorrei iniziare con alcune considerazioni complessive sulla enciclica Laudato si’, dicendo che si tratta certamente di un documento straordinario che s’innesta nel secondo dei due filoni in cui si è sviluppata la Dottrina sociale della Chiesa: il primo è quello inaugurato dalla Rerum Novarum che, di celebrazione in celebrazione, giunge fino alla Laborem exercens o, se si vuole, alla Centesimus annus; il secondo è quello avviato dalla Populorum progressio (anticipato dalla Pacem in terris) e sviluppato dalla Sollicitudo rei socialis prima e dalla Caritas in veritate poi, e ora dalla Laudato si’. Questa seconda linea, che ha nella Populorum progressio la sua nuova Rerum novarum, costituisce la linea che è innovativa non tanto nel merito quanto nel metodo. Infatti, queste encicliche risentono delle diverse stagioni socio-culturali e additano impostazioni differenti, ma tutte sono accomunate da una stessa esigenza metodologica: di misurarsi con l’idea di “sviluppo” dell’uomo e dei popoli, e di farlo in termini “radicali” nel senso che vogliono andare alla radice della questione; in particolare Laudato si’ parla proprio di “radice umana della crisi ecologica” (cui è dedicato il capitolo terzo dell’enciclica).

In questo contesto, la nuova enciclica ha una forza dirompente, in quanto più di ogni altra enciclica pone il problema del modello di sviluppo prendendo esplicitamente e decisamente posizione contro un preciso paradigma economico, cui contrappone un paradigma alternativo: l’uno e l’altro considerati non solo espressioni di visioni sociali, ma proprio di antitetici stili di vita. Alle cinque “esse” negative di “sfruttamento”, “saccheggio”, “sfrenatezza”, “spreco” e “scarto” che hanno prodotto “quello che sta accadendo alla nostra casa” (così s’intitola il capitolo primo dell’enciclica), papa Francesco contrappone altrettante “esse” ma positive, e precisamente: “soggettività” (per dire dignità umana), “socialità” (per dire bene comune), “solidarietà” (per dire fratellanza universale), “sussidiarietà” (per dire aiuto rispettoso) e “sostenibilità” (per dire limitatezza consapevole).

Si tratta quindi di cambiare il modello di sviluppo, ma, a tal fine, “non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema (scrive papa Francesco in modo inequivocabile) le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro” (n. 194). Occorre allora “ridefinire il progresso” (n. 194), e ciò comporta scelte che chiamano in causa non solo concezioni economiche, bensì visioni della vita; infatti soggettività, socialità, solidarietà, sussidiarietà e sostenibilità costituiscono i principi fondamentali di una vita responsabile, cui la dottrina sociale della Chiesa, “chiamata ad arricchirsi sempre di più a partire dalle nuove sfide” (n. 63), intende dare un suo specifico contributo.

  1. 2. Per un’etica dell’abitare

2.1.Abitare tra coltivare e custodire 

La nuova sfida è quella ecologica, e papa Francesco la iscrive nell’orizzonte dell’abitare alla luce  de “Il Vangelo della creazione”, trattato nel secondo capitolo dell’enciclica, dove si dice che la questione dell’abitare umano si configura come coltivare e custodire in termini di “una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura”, perché “coltivare significa arare o lavorare un terreno” e “custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare” (n. 67). Ebbene, è in questo contesto che papa Francesco pone l’esigenza e l’urgenza di “una ecologia integrale” come etica dell’abitare ed etica del condividere, temi su cui anche il pensiero contemporaneo invita a riflettere.

Sull’etica dell’abitare ha scritto Silvano Petrosino, tra l’altro in Pensare il presente (Nuova Editrice Berti, Parma 2013), secondo il quale i termini “coltivare e custodire” indicano le coordinate per individuare il senso dell’abitare umano, che è essenzialmente l’aver cura, per cui la vita è da coltivare e custodire, e questi due termini -sottolinea questo filosofo- sono imposti dall’apertura di quell’orizzonte di alterità che coincide con l‘apertura stessa della scena umana”.

Più precisamente (per il filosofo della Cattolica) coltivare significa “dare il nome alle cose” che è “gesto per eccellenza creativo”, tanto da essere considerato come “creazione seconda”, per cui l’uomo è creatura come tutti gli altri esseri, da cui però si differenzia per questa capacità. Al riguardo si possono evidenziare due questioni. La prima è che l’uomo è creativo e non creatore. La seconda è che questa creatività denominativa può configurarsi in modo corretto o perverso, come avviene quando si verificano dei veri e propri “capovolgimenti” di significato, quando cioè scrive in Capovolgimenti (Jaca Book, Milano 2008) la casa s’identifica con la tana e l’economia con il business.

Per quanto riguarda, poi, il custodire, esso comporta -secondo Petrosino- che l’uomo non solo costruisce o edifica (trasforma la natura), ma propriamente custodisce ciò di cui non è l’autore, ciò che manifesta una alterità irriducibile, quella per cui l’uomo è chiamato appunto a custodire: è una vocazione propria dell’uomo chiamato a rispondervi, cioè a esercitare la responsabilità; è “il tratto essenziale che qualifica l’abitare come gesto umano irriducibile all’atto del mero costruire”. Da qui l’affermazione “chi abita è a sua volta abitato”, abitato da “quella alterità irriducibile”, per cui “il custodire è sempre relativo all’incostruibile”. Al riguardo si possono evidenziare due questioni. Primo: l’individuo umano deve essere definito “soggetto”: “soggetto a” prima ancora e più originariamente di “soggetto di”: il soggetto moderno nasce proprio dalla trasformazione del “soggetto a” in “soggetto di”, dando luogo a una falsa idea di padronanza (di sé e del mondo). Pure da un altro punto di vista, Adriana Cavarero nel volume Inclinazioni (R. Cortina, Milano 2013) ha operato una “critica della rettitudine”, come critica della postura verticale del soggetto (che configura un io egoistico, chiuso in sé, autosufficiente e autoreferenziale) ed un elogio della inclinazione (che configura un altruistico, aperto, spinto ad uscire dal suo asse, per sporgere sull’altro). Secondo: due sono le posizioni, che si possono assumere: o il distruggere o l‘accogliere, ostilità o ospitalità; ebbene, l’esercizio dell’accoglienza comporta la consapevolezza di “non essere signore di se stesso”, per cui la più profonda accoglienza è quella che accoglie “se stesso come un altro” (Ricoeur), quella che accetta di essere un “non tutto” (Lacan).

     2.2.Quale rapporto?

I due termini -coltivare e custodire- rappresentano un binomio inscindibile: occorre pertanto (avverte Petrosino) evitare che “l’urgenza del custodire trascuri l’invito a coltivare” oppure che “lo slancio del coltivare perda di vista l’esigenza di custodire”: ciò reclama una duplice consapevolezza. Primo, che “un costruire che risolvesse il senso del proprio gesto nel custodire darebbe senz’altro prova di vivere l’urgenza del conservare, del preservare e del proteggere, ma ingenuamente dimostrerebbe di non comprendere come il modo più autentico e anche più efficace di rispondere a un simile compito implichi sempre l’impegno, l’iniziativa, la creatività, la decisione che osa coltivare”, perché “il vero e unico modo di custodire è quello che accetta la sfida di coltivare”. Secondo, che “un costruire che si concentrasse solo sul coltivare non potrebbe che trasformarsi, quasi per necessità interna in un distruggere”; in altre parole, “un costruire che non sia fin da subito anche un custodire si trasforma fin da subito in un distruggere” (4). In breve, il rischio è il capovolgimento, la perversione del coltivare e del custodire, per cui “nel loro abitare la terra gli uomini hanno spesso finito con il costruire non una casa e una città, ma una torre o una prigione o una tana, e talvolta perfino una tomba”.

Per concludere su questo punto si può allora dire che l’uomo deve avere consapevolezza di “non essere un tutto” (di essere un “non tutto”) e, nel contempo, non deve cedere all’idea di “essere un niente”. La cosa è possibile, se il soggetto abita (cioè coltiva e custodisce) in termini di accoglienza: il soggetto che accoglie e si accoglie non censura o sublima il limite che lo affigge né semplicemente lo subisce, ma accoglie l’alterità che lo abita come la condizione stessa della sua esperienza, vivendo non “come un condannato ad essere”, bensì “come un chiamato ad essere”.

     3. Per un’etica del condividere

Si pone, così, l’etica del condividere. Al riguardo, affinché la condivisione rinnovi radicalmente il rapporto dell’uomo con la natura, ritengo che sia necessario puntualizzare tre categorie, e precisamente il principio della dignità, la metafora della famiglia e la relazione di mediazione. Per precisare questi tre aspetti farò riferimento all’esergo (la citazione dal Genesi 2, 26-31) e al titolo (“custodire la terra come dono di Dio per l’intera famiglia umana”) di questa sesta edizione delle Giornate di spiritualità di Fonte Avellana.

     3.1.Dignità creaturale e dignità umana

La prima osservazione, , riguarda la frase posta in esergo: vi viene citato Gen. 2, 26-31, dove tra l’altro si dice a proposito della creazione dell’uomo che “Dio vide quanto aveva fatto; ed ecco, era cosa molto buona”; sarebbe stato opportuno fare riferimento anche a Gen. 1, 3, 10,12, 18, 21, 25, dove a proposito di ogni altra parte della creazione si dice che “era buona”. Ebbene, questa duplice citazione avrebbe reso evidente la duplice valutazione della creazione, vale a dire che tutto il creato era “cosa buona” e che, in particolare, l’uomo era cosa “molto buona”. Tradotto in altro linguaggio, si potrebbe dire che ogni essere, in quanto creato, ha dignità, e che, fra tutti gli esseri, l’uomo ha (per usare alcune espressioni dell’enciclica) una “speciale dignità” (n. 43), una “immensa dignità” (n. 65), una “dignità unica” (n. 69), una “peculiare dignità” (n. 154), nel senso di una “dignità infinita” (Giovanni Paolo II), di una “dignità trascendente” (Benedetto XVI). Già in san Francesco era evidente il riconoscimento della dignità di tutte le creature; come ricorda san Bonaventura (citato nella enciclica), “san Francesco chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello e sorella”, per cui in san Francesco (come annota papa Francesco) c’è “una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio” (n. 11). E’ importante evidenziare che la dignità è di tutto il creato, pur se in esso è da riconoscere all’uomo una dignità speciale. In tal modo, la dignità non è solo di alcuni uomini (concezione premoderna di carattere elitario), e non è solo dell’uomo (concezione moderna di carattere universale), ma è di tutti gli esseri (concezione postmoderna di carattere cosmico). E’ su questa base che papa Bergoglio intende proporre una “ecologia integrale”, cioè che ha “diverse dimensioni”, in particolare, “il posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circonda” (n. 15, cfr. tutto il capitolo quarto dell’enciclica: nn. 137-162); una ecologia, quindi, ambientale e umana, che è all’insegna del rispetto e della responsabilità, in quanto a tutti gli esseri riconosce la dignità, e all’uomo una dignità speciale, conseguente alla sua ragione e alla sua libertà.

3.2.Famiglia umana e famiglia universale

La seconda osservazione è relativa alla espressione “famiglia umana” contenuta nel titolo: affinché non suoni restrittiva, bisogna ricordare che accanto alla famiglia umana c’è, per dirla con il poeta, la “bella famiglia d’erbe e d’animali”. Per questo ritengo che sarebbe preferibile parlare di “famiglia cosmica”, nella quale francescanamente tutti hanno il loro riconoscimento e meritano rispetto, pur nella diversità delle condizioni di ciascuno. D’altra parte nella stessa enciclica (e precisamente al n, 89) si parla di “famiglia universale”; scrive papa Bergoglio:”essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge a un rispetto sacro, amorevole e umile”.

     3.3.Creato donato e creato affidato

La terza osservazione riguarda l’idea della terra come donazione (5). Mi chiedo: la terra è stata “donata” o è stata “affidata”? La donazione e l’affidamento, pur obbedendo a una logica ternaria, che mette al centro il momento della mediazione e dunque la relazione mediata (di donazione o di affidamento) tra due persone (chi dona o affida e chi riceve il dono o l’affidamento), sono concetti differenti, per il fatto che “affidare”, diversamente da “donare”, implica una donazione parziale o comunque incompleta, cioè configura un possesso condiviso e non completamente trasferito. E’ dunque una questione pregiudiziale: parlare della terra come “donata” da Dio all’uomo comporta soprattutto il carattere di amore e gratuità da parte di Dio, mentre parlare della terra come “affidata” da Dio all’uomo chiama in causa specialmente la responsabilità e l’impegno da parte dell’uomo. In altre parole: su una cosa donata il donante non ha più voce, mentre su una cosa affidata sì; nel primo caso il donatario è del tutto libero di disporre a suo piacimento del dono (pur nella gratitudine all’amore che il dono esprime), mentre nel secondo caso non può disporre arbitrariamente di ciò che gli è stato affidato, perché ne deve rendere conto a chi glielo ha affidato. Allora mi chiedo: si può pensare che del dono si possa rispondere meno di quanto si debba rispondere di ciò che è stata affidato? In una relazione di affidamento (che ovviamente non esclude la dimensione dell’amore) la relazione non comporta una “condivisione” maggiore e, insieme, una “responsabilità” maggiore da parte dell’uomo? Scrive papa Francesco (n. 159), “se la terra ci è donata, non possiamo più pensare soltanto a partire da un criterio utilitarista, di efficienza e produttività, per il profitto individuale”; ebbene, tale affermazione è ugualmente valida, e forse in misura maggiore, se la terra ci è affidata? La cosa si rende anche più evidente in riferimento ai rapporti intragenerazionali e intergerazionali, a cui richiamava papa Benedetto e su cui torna papa Francesco, in termini di solidarietà: leale, rinnovata e urgente (n. 162).

3.4. Una rivoluzione copernicana

C’è una linea di continuità nei cenni fatti riguardo alla dignità creaturale, alla famiglia universale e all’affidamento ambientale: è la dimensione cosmica, ed è condizione pe una nuova mentalità ecologica; è cioè richiesta una nuova logica, per affrontare in termini inediti la questione ecologica: capirne le cause e suggerirne i rimedi. Quella “cosmica” è una mentalità cui il mondo cattolico è forse poco abituato, essendo più abituato alla dimensione “cattolica” (umanistico-universale).

Eppure, proprio la dimensione cosmica costituisce la rivoluzione copernicana che papa Francesco opera nella questione ecologica. Spostando il centro del suo discorso dall’uomo a Dio, e dall’uomo alla natura, i riferimenti al creatore e al creato offrono le coordinate per intendere correttamente la posizione dell’uomo, ed evitare che alcuni esseri siano considerati meno creature di altre o che “alcuni (uomini) si sentano più umani di altri” (n. 90). In questo contesto, sono essenziali due sottolineature: primo: che “lo scopo finale delle altre creature non siamo noi” (n. 83); secondo: che occorre “mantenere una relazione corretta con il prossimo” (n. 70); da qui il riconoscimento della “interdipendenza delle creature” (n. 86) e l’imperativo a “rispettare il creato” (n. 69).

4. L’ecologia integrale

     4.1. Fra integralità e integrazione

Ho posto le tre questioni -della dignità, della famiglia e dell’affidamento in senso cosmico- in quanto esse mi sembrano influenti sulla delineazione di una ecologia integrale, che costituisce il programma ecologico di papa Francesco. L’espressione “ecologia integrale” mi ha richiamato una nota espressione, quella di “umanesimo integrale” che dà il titolo a una delle opere più significative di Jacques Maritain, e non è soltanto un’assonanza lessicale, è proprio una consonanza concettuale, nel senso che “integrale” è quell’umanesimo in quanto fa riferimento alla “integralità” dell’uomo e intende operare una “integrazione” di valori. Ebbene, queste stesse categorie (di integralità e di integrazione) mi pare che siano presenti nella concezione ecologica di papa Francesco, che al tema dedica tutto il capitolo quarto, intitolato appunto “Un’ecologia integrale” (nn. 137-162).

La “integralità” è bene evidente nella impostazione di papa Francesco, che considera riduttiva una concezione meramente “ambientalista”, e rivendica invece la necessità di una ecologia ambientale sì, ma anche economica e politica, umana e sociale, culturale ed esistenziale (nn. 138-155), perché “l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale” (n. 48). Parlare di “ecologia integrale” vuol dire allora parlare si sviluppo integrale, di ”vero sviluppo integrale” (n. 185), nella consapevolezza che “un nuovo approccio integrale” include “in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi” (n. 196), colti (questo è essenziale) secondo diverse modalità: scientifiche e sapienziali, tecniche e poetiche, filosofiche e teologiche, etiche e religiose.

Anche la “integrazione” è altrettanto evidente, sia nel senso di una ecologia che “integri il posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circonda” (n. 15), sia nel senso di un approccio che deve integrare l’ecologico con il sociale, che cioè “deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente” (n. 49). Insomma, si tratta di integrare le diverse dimensioni della ecologia non meno che i diversi livelli di impegno, nella consapevolezza che (ecco un punto fondamentale) “non c’è un’unica via di soluzione”; il che lascia “spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali” (n. 60).

E’ interessante che, al riguardo, papa Francesco parli di “dialogo”, quasi a evidenziare che si tratta di scelte che devono essere condivise sulla base di incontri e confronti. A tal fine, appare indispensabile il dialogo tra le religioni, tra le scienze e tra i diversi movimenti ecologisti (n. 201) ed è dialogo che costituisce un antidoto rispettivamente al fondamentalismo, al riduttivismo e all’ideologismo. A distanza di mezzo secolo dall’enciclica Ecclesiam suam, un’altra enciclica è incentrata sul dialogo, ma in modo nuovo, perché si è passati dalla crisi ideologica dei tempi di Papa  Montini alla crisi ecologica dei tempi di papa Bergoglio.

  4.2.L’impegno cristiano

A proposito di impegno ecologico, papa Francesco riserva specifica attenzione all’impegno dei cristiani. Anzitutto, non si nasconde che “una cattiva comprensione dei nostri principi ci ha portato a volte a giustificare l’abuso della natura o il dominio dispotico dell’essere umano sul creato, o le guerre, l’ingiustizia e la violenza”, per cui “come credenti possiamo riconoscere che in tal modo siamo stati infedeli al tesoro di sapienza che avremmo dovuto custodire” (n. 200). Il che continua a condizionare tanto mondo cattolico. Eppure (evidenzia papa Francesco), “le convinzioni di fede offrono ai cristiani e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili. (…) Pertanto è un bene per l’umanità e per il mondo che noi credenti riconosciamo meglio gli impegni ecologici che scaturiscono dalle nostre convinzioni” (n. 64).

D’altra parte, però, lo stesso papa Francesco afferma che “su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando la diversità di opinione” (n. 61), e più avanti ribadisce che “la Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica, ma invita a un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune” (n. 188). Da qui, un duplice avvertimento. In primo luogo, la indicazione degli “atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione fra i credenti”: esse “vanno dalla negazione del problema alla indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche” (n. 14, cfr. anche n. 59). In secondo luogo, “l’appello ai credenti affinché siano coerenti con la propria fede e non la contraddicano con le loro azioni” e “si aprano nuovamente alla grazia di Dio e attingano in profondità dalle proprie convinzioni sull’amore, sulla giustizia e sulla pace” (n. 200).

Papa Francesco fin dall’inizio della sua enciclica ha voluto “esprimere riconoscenza, incoraggiamento e ringraziare tutti coloro che, nei più svariati settori dell’attività umana, stanno lavorando per garantire la protezione della casa che condividiamo”, in particolare “quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo” (n. 13). Non esita poi a riconoscere che “il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino” (n. 14), “ha fatto un lungo percorso, arricchito dallo sforzo di molte organizzazioni della società civile” (n. 166), tra cui un posto non secondario è senz’altro da riconoscere al volontariato cattolico. Nel contempo papa Francesco riconosce che non sono stati raggiunti “accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci” (n. 166).

Tra le ragioni dell’insuccesso, papa Francesco segnala “il rifiuto dei potenti” e il disinteresse degli altri” (n. 14), in particolare insiste su “una politica focalizzata sui risultati immediati sostenuta anche da popolazioni consumiste” (n. 178) e conseguente a una nuova forma (si vorrebbe dire con linguaggio maritainiano) di “machiavellismo” all’insegna del “produrre crescita a breve termine” (n. 178). Ma, soprattutto, è da segnalare la “filosofia” sottesa alle questioni ambientali, vale a dire la logica del “modello tecnocratico” (n. 101), altri direbbero: “tecnocapitalista” o “tecnonichilista”, e il “paradigma tecnocratico”, che è “dominante”, si presenta come necessario e inevitabile; il che non è assolutamente vero.

     5. Un discorso aperto

Per concludere, vorremmo dire che -a parte alcuni toni, che sanno un po’ di manuale di ecologia, e alcuni riferimenti un po’ troppo analitici e tecnicil’enciclica di papa Francesco pone in modo lucido e appassionato il problema del futuro dell’uomo in termini che, prima di essere apocalittici, sono antropologici. Così l’ecologia (a partire dalla crisi ecologica) viene iscritta nell’orizzonte dell’antropologia, e questo avviene sulla base di una antropologia che colloca l’uomo nell’orizzonte della terra, della quale l’uomo è parte e vertice: alla terra l’uomo non può sottrarsi, ma in essa non si esaurisce; siamo cioè in presenza di una antropologia che considera l’uomo all’interno della natura senza però dimenticare che l’uomo la supera. E’, questo l’umanesimo della dignità trascendente dell’uomo (su cui ho richiamato l’attenzione recentemente alle “Giornate dell’anima” 2015), un umanesimo personocentrico che è alternativo tanto all’antropocentrismo moderno, quanto all’ecocentrismo postmoderno, tanto all’egocentrismo moderno, quanto al biocentrismo postmoderno; dunque, una visione, quella di papa Francesco, che prende le distanze sia da certe impostazioni cattoliche tradizionali, sia da certe altre impostazioni innovative laiche.

Indubbiamente, non mancano nella enciclica punti che andrebbero ulteriormente precisati, a partire dalla stessa definizione di “terra”; “matre terra” la definiva san Francesco e “terra madre” s’intitola un libro di Carlo Petrini; dal canto suo, papa Francesco oltre a riprendere questa denominazione, ne usa anche altre come “sorella terra” (n. 1), “casa comune” (n. 1) posta a titolo della stessa enciclica “sulla cura della casa comune” (un’espressione, questa, che è stata utilizzata in riferimento a diverse realtà: dall’Europa alla Costituzione, ecc.), “natura” (n. 11), “ambiente” (n.11), “creato” (n. 69) e “creazione” (n. 76), ma si potrebbe parlare anche di “giardino”, di “organismo”, di “patria” ecc. E’ però da dire che non si tratta di sinonimi, anche se vengono usati come tali: infatti, diverso è il comportamento da tenere nei confronti di una casa ovvero di un organismo, di una madre o di una sorella, di una natura materiale o di una patria naturale, di un mondo conseguente a una creazione o di un ambiente conseguente a una evoluzione. Pertanto l’uso delle diverse espressioni letterali e metaforiche usate per chiamare la terra dovrebbe costituire motivo di riflessione e di precisazione, esplicitando le diverse concezioni ecologiche che esse veicolano. Infatti, non si tratta di questioni meramente lessicali, ma propriamente concettuali, e per capirlo basti pensare alla rivoluzione che ha determinato l’idea della terra come “Gaia” (pur in diverse versioni: da quella di James Lovelock a quella di Lynn Margulis).

Non mancano, poi, perplessità su certe assenze di riferimenti; se opportuno è il richiamo al pensatore cattolico Romano Guardini (citato a più riprese), al patriarca ortodosso Bartolomeo e al filosofo protestante Paul Ricoeur, non è spiegabile l’omissione di citazione di “una voce ebraica” come quella di Hans Jonas, tanto più che ne vengono condivise alcune valutazioni e alcune soluzioni; tra l’altro, mi pare che “il principio responsabilità” costituisca anche per papa Francesco un principio ecologico essenziale. Non mancano, inoltre, alcune affermazioni che suonano un po’ perentorie; così, per esempio, quella secondo cui “la proprietà della casa ha molta importanza per la dignità della persona e per lo sviluppo delle famiglia. Si tratta di una questione centrale dell’ecologia umana”: ma, più che la proprietà, è la disponibilità di una casa ad essere importante. Non mancano infine altre affermazioni che, pur condivisibili, avrebbero bisogno di essere ulteriormente precisate, come il cosiddetto “principio di precauzione” (cui si accenna esplicitamente al n. 186). Al riguardo sono note le discussioni che tale principio ha suscitato, quando è inteso come un “principio di prevenzione”, ovvero come un principio con cui portare la tecnologia al guinzaglio o metterle la museruola. Il fatto è che la categoria di “precauzione” è tutt’altro che semplice o scontata; basti pensare che, se fosse stata applicata nel passato (non solo prossimo, ma anche remoto), non avremmo potuto conseguire certi risultati, poi considerati positivi e alla base di ulteriori acquisizioni, anch’esse valutate positivamente. Il fatto è che oggi siamo di fronte a una crisi gravissima, ed è in questo contesto che si avverte il bisogno di fare i conti con il principio di precauzione. Con la consapevolezza che tale principio comporta discussioni. Come altri, d’altra parte, perché non sono poche le “questioni relative all’ambiente, nelle quali è difficile raggiungere un consenso” (n. 188).

Ebbene, proprio questa affermazione dovrebbe forse indurre a essere consapevoli di quanto la questione ecologica vada affrontata (almeno a livello di magistero ecclesiale) più sul versante della denuncia della “crisi ecologica” (n. 17), che non su quello delle soluzioni pratiche; l’annuncio evangelico più che identificarsi in risposte tecniche può animare un messaggio incentrato sulle “virtù ecologiche” (n. 88), sulla “cultura ecologica” (n. 111), sulla “educazione ambientale” (n. 210), sulla “cittadinanza ecologica” (n. 211), sulla “spiritualità ecologica” (n. 216), sulla “conversione ecologica” (n. 217).

Si tratta, allora, di demandare ai christifideles laici (scienziati, tecnici, tecnologi) la ricerca di impostazioni che sappiano tradurre operativamente la denuncia delle cause della crisi ecologica in una pronuncia di superamento di quelle cause. In altre parole, direi che è richiesto un coinvolgimento diretto e diffuso dei credenti (Christifildes) in generale e dei credenti (Christifildes laici) specificamente competenti o semplicemente cittadini, e non è detto che le loro indicazioni avrebbero un carattere univoco; in ogni caso, però, costituirebbero un modo di affrontare la presente crisi con avvertita sensibilità e specifica competenza, per cui i Christifideles laici si assumerebbero le loro responsabilità nel contesto della comunità civile e scientifica, oltre che di quella ecclesiale.

Mi sembra, pertanto, che i punti sopra indicati costituiscano le indicazioni più preziose del magistero di papa Francesco, e, insieme, altrettanti motivi di impegno ideale ed esistenziale, tecnico ed etico dei credenti che operano direttamente nel mondo. Ecco perché ritengo che il nucleo più essenziale e profondo della enciclica sia da rintracciare nella idea della “ecologia integrale”, riassumibile nella richiesta di ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri (n. 49) nella consapevolezza (ecco il punto da evidenziare) che sono indisgiungibili: si alimentano vicendevolmente, e reciprocamente s’influenzano, per cui è  legittimo affermare che l’ambiente umano e quello naturale si degradano insieme, e insieme possono essere risanati. Da qui la convinzione che un corretto ambientalismo è anche umanista, e un corretto umanesimo è anche ambientalista.


Testo della relazione presentata al convegno “Per un’etica dell’abitare e del condividere nella città dell’uomo. L’impegno dei credenti, dei movimenti, della Chiesa”, nell’ambito della sesta edizione delle Giornate di spiritualità di Fonte Avellana (5 luglio 2015) dedicate a “Custodire la Terra come dono di Dio, fonte di vita per l’intera famiglia umana” e coordinate da Girolamo Valenza, responsabile regionale del MEIC Marche.


Giancarlo Galeazzi è docente di Filosofia teoretica all’Istituto Superiore di scienze Religiose di Ancona e di Filosofia morale all’Istituto Teologico Marchigiano, rispettivamente collegato e aggregato alla Facoltà teologica della Pontificia Università Lateranense. È stato direttore dell’Istituto superiore marchigiano di scienze religiose “Redemptoris Mater” e dell’Istituto superiore di scienze religiose “Lumen gentium” di Ancona. È direttore della rivista semestrale “Sacramentaria & Scienze religiose” e vice direttore della rivista annuale “Studia Picena”. E’ presidente onorario della Società Filosofica Italiana di Ancona, e socio emerito dell’Accademia marchigiana di scienze lettere e arti.

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