rassegna stampa

Santa Maria del Fiore, scrigno dell’umanesimo

di Alessandro Beltrami

Lo scultore e poeta Massimo Lippi sottolinea che in questo tempio «dalla monumentalità tremenda e terribile non ci sono quasi affreschi e domina l’austerità dell’architettura che definisce i limiti di un grande vuoto. È uno spazio eclatante, perché vuole essere lo specchio di una città tutta dedicata a Cristo Re». Nella cupola «lo slancio verso il Risorto»

Ci vogliono gli occhi dell’artista e le parole del poeta per entrare nello spirito di Santa Maria del Fiore. Massimo Lippi li ha entrambi. Lo scultore e scrittore senese, docente all’Accademia di Firenze e due volte finalista al Premio Viareggio, conosce dal di dentro la Cattedrale fiorentina, visto che dal 2013 vi si trova il suo faldistorio in bronzo, ossia la “sedia” usata dal cardinale arcivescovo Giuseppe Betori durante le celebrazioni della Settimana Santa. «L’edificio ha una monumentalità tremenda e terribile», dice Lippi. «Non ci sono quasi affreschi, domina l’austerità dell’architettura che definisce i limiti di un grande vuoto. È uno spazio eclatante, perché vuole essere lo specchio di una città tutta dedicata a Cristo Re, il Rex tremendae maiestatis ». La Cattedrale fu iniziata nel 1296 da Arnolfo di Cambio. Sebbene ampliato, il cuore del progetto è rimasto. «Il grande architetto e scultore – afferma Lippi – è il rappresentante di una persistente classicità di cui Dante stesso è un vessillifero. Per la classificazione degli stili, Santa Maria del Fiore è gotica, ma a me piace definirla di un gotico “ragionato”. Qui non si è bevuta la cultura transalpina, anticlassica. C’è un rapporto filogenetico tra la Roma antica e le affermazioni del gotico toscano. Se la classicità persiste in Firenze, lo fa grazie al suo popolo e la sua lingua. La stessa che Dante porta a livelli monumentali. La stessa che Giotto desume dai pastori del Mugello, i veri “modelli” dei suoi affreschi». Nella lettura di Lippi “pastorale” è anche la forma data da Giotto al campanile. «È quella di un bastone di pastori intagliato. Un bastone piantato nel terreno e che rifiorisce, come l’olmo secco al passaggio del pastore della Chiesa fiorentina, san Zanobi».

In Santa Maria del Fiore Massimo Lippi suggerisce di focalizzarsi su due punti in particolare. Uno meno noto, l’altro celeberrimo. Il primo è il monumento del vescovo Orso, eseguito nel 1321 dallo scultore senese Tino di Camaino. Si trova in controfacciata. «È l’immagine di un uomo sereno che si è addormentato seduto sul proprio sarcofago. Dorme nell’attesa, seduto per essere pronto al risveglio. Mi ricorda i vecchi contadini, quando nella calura dell’estate sedevano con uno zoccolo in mano: se il sonno li vinceva, le mani si aprivano e lo zoccolo cadendo a terra li svegliava. Il vescovo Orso è la cariatide che regge tutto il Duomo. Tino da Camaino l’ha ritratto con forme di una compattezza purissima. È il vescovo pastore per eccellenza, che dorme nell’ovi- le e aspetta con lo zoccolo in mano la Resurrezione ». La seconda è la cupola di Brunelleschi. «Nelle sue forme c’è tutto lo slancio verso il risorto. Non servivano gli affreschi di Giorgio Vasari: bastava la forma pura che canta. I costoloni di pietra paiono giunchi flessuosi. Nella cupola c’è tutto il senso dell’umanesimo cristiano, che è ragione e creato. Brunelleschi andò al mercato e prese un “calicione”, ossia una rapa, e disse alzandolo: questo voglio fare. E poi scese all’arenile dell’Arno e tracciò per terra le strutture grandi al vero. Studiava la rapa, la forma naturale, messer Filippo, e ne dava ragione». Da lì si inarca la cupola «che nel librarsi di una foglia anziché scendere dal cielo vi sale». Una tensione immane. «La trattiene in cima la forza di un peso ancor più grande: la lanterna. Che è quasi un dogma teologico. È la luce di Cristo che si cala sull’uomo e lo incontra nel punto più alto dei cieli a lui possibile, e lo illumina con la ragione dell’Incarnazione », osserva l’esperto.

da Avvenire, 12 novembre 2015

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