rassegna stampa

Se l’umanesimo è già oltre le sbarre

di Matteo Liut

Incontro con i detenuti del “Solliccianino” dove un regime di detenzione attenuato permette percorsi formativi. Importante anche la collaborazione con i volontari. La direttrice Margherita Michelini: «Così si possono curare le relazioni umane»

Una nuova visione sull’uomo non può escludere anche coloro che hanno compiuto errori e sono alla ricerca di un riscatto, di un nuovo inizio: i carcerati. Nell’ambito dei 30 «Incontri con la città», ieri un gruppo dei delegati del quinto Convegno ecclesiale nazionale ha potuto varcare i cancelli della casa circondariale a custodia attenuata “Mario Gozzini” conosciuta come “Solliccianino”, perché si trova a Sollicciano, zona della periferia a Sudovest di Firenze. E in quella struttura il gruppo ha toccato con mano una realtà sociale dove è già in atto un progetto di «nuovo umanesimo» in grado di far ripartire relazioni e intere esistenze. Il carcere è nato alla fine degli anni Ottanta e ospita pochi detenuti, un’ottantina cir- ca, tutti con pene relativamente brevi, in un regime attenuato: le celle restano aperte durante il giorno, per cui i carcerati hanno libertà di movimento tra le sezioni e le aree comuni. Ma non solo: vengono offerti percorsi formativi, attività educative e impegni rivolti alla crescita umana di chi vi è rinchiuso. Chi ci arriva spesso ha fatto richiesta esplicita dopo un periodo di detenzione in altre strutture. C’è poi un’ampia apertura al volontariato e alla collaborazione con le istituzioni esterne. Qui gli educatori conoscono uno a uno i carcerati, che hanno un’età media non elevata, e propongono percorsi riabilitativi personalizzati.

«In realtà “detenuto” è una parola che non mi piace usare – ha detto la direttrice del carcere, Margherita Michelini –, perché da aggettivo è diventata sostantivo. Così preferisco pensare a loro come persone attualmente prive della libertà». Un cambio di definizione che modifica alla radice il modo di concepire chi sta in carcere. «Ma il penitenziario può davvero rieducare e riprogettare una vita? », si è chiesta la responsabile. Non c’è risposta certa, ma al “Solliccianino” quello che si tenta di fare prima di tutto è «curare le relazioni umane tra operatori, agenti e detenuti ». Un approccio condiviso anche dagli agenti della polizia penitenziaria, come ha confermato il comandante: «Sappiamo di avere davanti delle persone e con loro intessiamo un rapporto di dialogo ». Padre Davide Mario Colella, cappellano carcere, ha richiamato i delegati alla necessità di dare più spazio nella vita delle comunità cristiane all’attenzione per il mondo carcerario. «Non chiedo mai loro perché sono qui – ha detto il religioso riferendosi ai detenuti – perché non mi interessa il loro passato ma solo ciò che sono adesso e vedo nei loro occhi ancora molta sofferenza». All’incontro, che ha visto la presenza anche di don Virgilio Balducchi, responsabile dell’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri, hanno portato la loro testimonianza un’insegnante della scuola interna all’istituto, una religiosa che ha prestato servizio nella struttura, due volontari impegnati nell’animazione liturgica. Infine anche due detenuti, Marco e Bladi, hanno raccontato la loro esperienza.

da Avvenire, 13 novembre 2015

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