segni dell'umano

Verità resilienti, contro la disumanità

di Alessandro Rossi

Regina José Galindo, La verdad, video 2013, Ciudad de Guatemala, Centro de Cultura de España

Nel video che registra la performance “La verdad” (2013) l’artista guatemalteca Regina José Galindo è ripresa seduta a una scrivania mentre legge per un’ora circa pagine e pagine di testimonianze dei soprusi e delle violenze subite da migliaia di persone durante il conflitto armato che ha sconvolto il Guatemala per oltre trent’anni (1960-1996). La lettura viene a tratti interrotta dall’entrata in scena di un dentista in camice azzurro che, siringa alla mano, inietta un anestetico nella bocca dell’artista. Quest’ultima, subita tale operazione asetticamente invasiva, continua imperterrita a leggere le atroci testimonianze, mostrando nel corso del video la sempre più evidente fatica a pronunciare e a scandire bene le parole. La lettura però non si ferma, l’artista ogni tanto beve un po’ d’acqua, come farebbe un qualsiasi relatore in una qualsiasi conferenza, e prosegue, intorpidita dal farmaco e nonostante la commozione, a dare voce alle vittime innocenti del conflitto. Quella che la Galindo interpreta è la resistenza attiva della parola, del narrare, del testimoniare e del vivere sulla propria pelle d’artista la prepotenza di un potere che vuole far tacere e a cui è invece necessario resistere, dicendo.

“La verdad” mostra plasticamente, con la crudezza disturbante di un ago piantato nelle gengive filmato anche in primo piano, che «la verità della parola è il silenzio che l’avvolge» (Jöe Bousquet). L’artista pronuncia parole strappate al silenzio, parole non sue, ma della sua gente, del suo popolo ferito e offeso. Le pronuncia come se il siero iniettato dalla siringa nutrisse la sua stoica statua interiore che, intimo testimone, si ostina nell’improbabile possibilità di proferire parola attraverso una bocca anestetizzata.

Non letteratura viene esposta al pubblico, ma testimonianza che si fa performance, assumendo nella sua asciutta teatralità un valore documentario potenziato proprio dall’esplicitarsi della difficoltà di potere semplicemente parlare per dire/ri-ferire il vuoto della ferita. Attraverso il linguaggio immediato e quotidiano di un corpo, la Galindo celebra un rituale di resilienza che va oltre alle sconvolgenti testimonianze che sta leggendo, affermando una vitalità inaspettata di cui vulnerabilità e ferita sono necessarie premesse. È come se, con tenace compostezza, l’artista demolisse l’alfa privativo dell’an-estesia che le viene somministrata, mutandola nell’estetica di un gesto artistico dal valore profondamente etico, che mostra come l’umano resista e persista anche in condizioni di disumanità estrema.

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