rassegna stampa

«Vie di umanesimo concreto così saremo ancora lievito»

di Mimmo Muolo

Il punto sulla preparazione della Chiesa italiana al Convegno ecclesiale decennale del prossimo autunno, tra idee, scelte, buone pratiche e questione del «gender»: intervista al vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della CEI

Il fine è quello di sempre: «L’evangelizzazione del nostro tempo». Ma le modalità sono nuove. Perché nuova è la stagione che stiamo vivendo e diverso è lo stile di Papa Francesco, che non può non essere punto di riferimento per la Chiesa in Italia. Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, fa il punto sulla preparazione del Convegno di Firenze, a partire dal suo scopo. «In sostanza – afferma – verificare il nostro cammino di fedeltà al rinnovamento conciliare e aprire nuove strade all’annuncio del Vangelo nel nostro Paese, alla luce dell’Evangelii Gaudium.

Dunque si tratta della tappa di avvio per un percorso nuovo.

Nuovo rispetto a che cosa?

Innanzitutto rispetto all’approfondimento del contenuto dell’evangelizzazione, ma anche riguardo allo stile dell’annuncio. Il Papa ci indica uno stile sinodale che coinvolge tutti, sia in riferimento all’analisi della situazione del Paese sia per i percorsi che come Chiesa possono portarci a dare risposte significative a ciò che emerge dall’analisi.

Dunque è il «cammino» l’”icona” del Convegno di Firenze?

Nelle diocesi è già in atto un percorso di informazione, formazione e coinvolgimento. E di certo la Chiesa italiana non comincia oggi a parlare di evangelizzazione. Negli anni ’70, ad esempio, ci si rese conto della distanza tra la vita di fede e la quotidianità e si capì che bisognava riprendere in mano l’esperienza dell’annuncio. Anche oggi il mondo cambia e non possiamo restare a fare i guardiani del faro. Dobbiamo inserirci nel processo di rinnovamento per continuare a essere lievito.

L’immagine evangelica del lievito indica anche lo stile di Firenze 2015?

La metafora ci dice che il rapporto quantità- rilevanza non è sempre e necessariamente alla pari. Tante volte pensiamo di essere rilevanti perché gridiamo, perché stiamo da tutte le parti, e su tutto diciamo la nostra parola. La logica del lievito è invece quella di una Chiesa consapevole che la forza trasformante non è legata solo alla quantità e alla visibilità. Il Convegno, spero, ci aiuterà a interiorizzare questa logica.

Ogni Convegno decennale è stato contrassegnato dalla presenza di un Papa. Si può già parlare di un influsso di Francesco su Firenze?

Il Convegno non sarebbe stato lo stesso senza il 13 marzo 2013. Ma voglio precisare che Francesco sta facendo breccia, non perché dica cose nuove rispetto ai suoi predecessori (per favore evitiamo di cedere alla brutta tentazione di vedere il suo pontificato sotto il segno della discontinuità), ma perché utilizza una comunicazione più immediata e un metodo che ha maggiore impatto sulla gente. Il suo è un invito a non fare del Vangelo solo un argomento di annuncio, ma uno stile di vita. Allora non si va a Firenze per rimestare tra gli studiosi che hanno parlato di umanesimo cristiano e riproporre temi triti e ritriti. Lo stile di Francesco ci chiede di volgere lo sguardo alle forme di umanesimo negato e di indicare in Cristo i percorsi per trasformarle in umanesimo riuscito.

Qualche esempio di umanesimo negato?

Ce ne sono sia all’interno della Chiesa, sia nel mondo. Sbaglieremmo se ci limitassimo a questi ultimi. Prendiamo il caso della pedofilia, che è anche un vero e proprio delitto. Dobbiamo fare in modo che simili aberrazioni non avvengano più e che quanti per funzione, ministero e servizio vengono a contatto con i bambini siano formati bene.

E all’esterno?

Ci sono le vecchie e nuove povertà. E non possiamo non chiederci: ‘La mia fede in Cristo come mi aiuta ad avere cuore e mani per trasformare quegli umanesimi negati in umanesimi riusciti?’. Gli esempi in verità non mancano, e cito per tutti i centri di accoglienza per gli immigrati. Ma non dimentichiamo che le prime ad accorgersi del dramma della tossicodipendenza sono state per lo più realtà del mondo cattolico. Chi si è accorto che le prostitute non erano quasi mai donne che lo facevano per piacere ma persone sfruttate e schiavizzate sono stati sacerdoti e laici cattolici. E chi sta lavorando perché il tema della prostituzione non venga affrontato – come qualche pubblico amministratore vuole fare a Roma – creando i quartieri a luci rosse è proprio la Chiesa. Ecco, dunque: di questi umanesimi concreti parleremo a Firenze.

Fra gli umanesimi negati lei metterebbe anche la teoria del gender?

Prima di rispondere, mi si permetta di tornare sui concetti di natura e di cultura e sul loro reciproco rapporto. È evidente che il maschile e il femminile sono dati oggettivi. Ma bisogna evitare di considerare la natura sia come un totem intoccabile sia come il frutto di sole scelte personali. Entro certi limiti la cultura può e deve agire sulla natura. Pensiamo solo a come erano visti 50 o 60 anni fa il ruolo dell’uomo e della donna: non certo in una logica di reciprocità, ma più spesso di subalternità. La cultura – grazie a Dio e anche a tanti interventi della Chiesa – ci ha fatto capire l’errore. Ma quando la cultura arriva a pretendere l’appiattimento o la distruzione di ogni criterio identitario va oltre le sue possibilità e diventa essa stessa il nuovo. Quindi, rispondendo alla domanda: la teoria del gender è un umanesimo negato perché sulla base di una cultura-totem impoverisce e appiattisce l’umano, ignorando quella realtà splendida che è la differenza tra maschile e femminile e la loro complementarietà.

Alla luce di tutto ciò, come interpretare le cinque vie di Firenze: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare?

Le cinque vie, cioè i cinque verbi dell’Evangelii gaudium, sono i percorsi attraverso i quali oggi la Chiesa italiana può prendere tutto ciò che viene dal documento di papa Francesco e farlo diventare vita. Prendiamo l’uscire: non è un andare solo per dare ma per incontrare e farsi incontrare. Una Chiesa che esce inizia a pensare che non esiste solo il proprio pulpito ma anche quello della strada. Dobbiamo uscire perché siamo la Chiesa di Cristo incarnato, non una torre d’avorio. E l’incontro deve avvenire con lo stile di Gesù, cioè la misericordia che accoglie tutti e li incoraggia a vivere secondo la vita buona del Vangelo. In tal modo cominciamo a entrare anchenella dinamica giubilare.

Passiamo in rassegna anche le altre quattro vie.

Quanto detto per l’uscire vale per l’annunciare. Dobbiamo capire come farlo in un contesto che è ormai marcatamente pluriculturale e plurireligioso. E anche qui papa Francesco si pone come modello con i gesti, con le parole e soprattutto con il suo richiamo a conformarci meglio allo stile di Cristo. Dobbiamo comprendere questo, non imitarlo goffamente, senza un percorso di vera conversione.

Qualcuno dice che abitare è verbo politico. È proprio così?

Sì, perché ci consente di analizzare da punti di vista concreti la condizione reale del nostro Paese. Come possiamo esercitare una responsabilità cristianamente ispirata nella città degli uomini, senza finire organici o subalterni al potere e ai poteri? Non tocca ai vescovi intervenire nelle scelte politiche, ma ai laici sì, nuovamente, con nuova maturità, preparazione, consapevolezza, responsabilità e libertà.

Educare richiama il decennio in corso.

L’educazione resta una vera e propria emergenza, perché la cultura si vuole affrancare in modo disinvolto da qualsiasi tradizione e dai valori da essa veicolati. Una cultura che non vuole avere radici di nessun tipo. È come se sull’immagine dell’Italia ci fosse la scritta ‘affittasi’. E non vale solo per le nostre aziende. Dunque il convegno è chiamato a dare delle risposte che sono già abbozzate nel percorso di preparazione.

Infine il trasfigurare. Cosa significa?

È un impegno a trasfigurare se stessi e gli altri alla luce del Vangelo. Vita liturgica e sacramentale, preghiera e conversione, fede e carità trasformano le nostre comunità cristiane, le liberano da molte situazioni di infedeltà (si pensi al carrierismo in ambito ecclesiastico). In sostanza, no a una Chiesa autocelebrativa, sì a una Chiesa che si fa guidare da Cristo verso gli altri.

da Avvenire, 3 maggio 2015

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