ragioni dell'umano

L’azzardo del nuovo umanesimo

di Salvatore Natoli e Kurt Appel

Faccia a faccia. Un filosofo e un teologo a confronto sulle ragioni della misericordia

La vera carità è dei «servi inutili»

di Salvatore Natoli

La questione del rapporto tra giustizia e misericordia è centrale in tutte le culture, così come lo è la cosiddetta ‘regola aurea’ che chiede di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Dunque il cristianesimo ha il merito di radicalizzare una questione che di per sé è stata avvertita, nel corse dei secoli, dall’intera umanità. Il termine latino dignus, da cui dignitas, rimanda all’essere meritevole di rispetto, ma anche al rendersi meritevole di rispetto. Ciò significa, da una parte, che c’è la possibilità che nel singolo uomo l’umanità venga distrutta, sottratta, umiliata; e dall’altra, che può essere il soggetto che non si pone all’altezza della libertà. Quest’ultima è la condizione dell’uomo nel mondo occidentale odierno, dove egli pare asservito a un desiderio eccitato dall’esterno, nel quale l’attivismo viene scambiato per azione, la mobilità e il libertinismo per libertà. Dove c’è eccitazione, infatti, è difficile accorgersi di non essere liberi. In altre parti del mondo, invece, sono ancora molti i soggetti vittime di una coazione. Spesso è la dimensione stessa del bisogno che li impoverisce, perché nell’indigenza la libertà e la dignità non possono emergere. Ecco perché (lo afferma Gesù stesso, nell’episodio con il quale inizia il suo ministero pubblico secondo il racconto di Luca) i poveri vanno riscattati dalla loro povertà. Spesso invece il cristianesimo stesso ha alimentato, lungo la sua storia, l’equivoco che la loro condizione fosse un bene, affidando eventualmente alla vita oltre la morte la loro redenzione, così da poter praticare una ‘carità pelosa’, utile all’esercizio della propria bontà. La liberazione dei poveri significa invece la liberazione dell’intera umanità. Rispetto a questo paesaggio, desidero mettere a fuoco due dinamiche alternative: quella della negazione e quella del riconoscimento. La nostra società conosce una sorta di sindrome della negazione: uno stare a metà tra il sapere e il non sapere. I mass media, la televisione soprattutto, ostentano una gamma incredibile di sofferenze, dolori, strazi, lutti. Dinanzi ai quali la risposta è: chiudere un occhio, fare come gli struzzi, pensare che siano cose che non ci riguardano, tenere lontana persino la percezione della propria impotenza: «Tanto, cosa potrei fare, io, a parte mantenermi personalmente onesto?». Sono solo apparentemente più virtuosi di questo gli atteggiamenti da ‘business della carità’: le organizzazioni che professionalizzano la risposta alla povertà ottenendone in cambio immagine e apprezzamento. E contando sull’occasionale empatia che le emergenze riescono a suscitare, in mobilitazione di personaggi ‘popolari’, anche se questa finisce, da un lato, per fare da schermo all’ignoranza delle cause e dall’altro per generare la ‘stanchezza della compassione’, l’assuefazione a qualunque dolore. Il riconoscimento scatta invece quando si riescono a trasformare i testimoni passivi in soggetti responsabili, altruisti. Spesso si definisce l’altruismo come l’agire senza contropartita, e in tal modo ci si espone alla critica di chi, in una prospettiva utilitarista, sottolinea che anche la gratitudine e la riconoscenza dell’altro costituiscono un’ambita ricompensa. Ma colui che pratica veramente l’altruismo è chi sente in modo diretto e quasi d’istinto l’umanità dell’altro. È un aspetto che emerge con chiarezza quando si ascoltano le testimonianze di chi ha aiutato i perseguitati dal nazismo e da ogni altro totalitarismo e oggi fanno parte del ‘Giardino dei Giusti’: vedendo l’umanità degradata negli altri l’hanno sentita ferita in sé stessi, e hanno reagito; tanto che, per spiegare perché, hanno dichiarato semplicemente: «Cosa altro potevamo fare?».

È questo sentimento, questo ‘muoversi dei visceri’ che Luca descrive a proposito del buon samaritano, che può essere riacceso là dove appare spento e consente alla vita di continuare il proprio ciclo. Le azioni per il bene comune possono attingere risultati anche indipendentemente dal fatto che non siamo nelle condizioni di sperimentare l’esito. Ma in questo caso vale la frase del Vangelo: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili’ ». Il bene dà frutti e noi dobbiamo esserne i veicoli, senza vantare personali pretese.

I meccanismi mediatici spingono l’Occidente verso due eccessi: l’ostentazione del dolore, che rende indifferenti, e le associazioni che professionalizzano la loro risposta alla povertà per ottenere consenso.

La società rinasce se accetta la fragilità

Svolgendo la domanda sul contributo del cristianesimo per un nuovo umanesimo, bisogna partire da una diagnosi dell’humanum, che si trova oggi soggetto di un’universale e radicale minaccia. Sia le narrazioni religiose tradizionali, sia quelle secolari-illuministiche sono in crisi, dal momento che la storia e il suo fine sono diventati complessivamente incerti. Non è che l’uomo (questo è il sospetto odierno) sia soltanto un episodio transitorio? Le visioni religiose e secolari per un’umanità migliore non sono state confutate? Non si è raggiunto un livello di distruzioneecologica e sociale difficilmente rimediabile? Non si diffonde sempre di più un disgusto verso l’uomo, un desiderio nascosto di una fine del nostro mondo?

Oggi s’incontrano ovunque visioni apocalittiche di declino, nel cinema come nella letteratura: da Melancholia di Lars von Trier fino al grande romanzo di Cormac Mc-Carthy La strada. Nella cultura pop dominano figure come cyborg, zombie o vampiri, che si distinguono per il fatto di essere immortali senza essere redenti. L’ultimo uomo è dunque un morto vivente, una macchina insensibile o uno zombie anaffettivo? La realtà che ci aspetta è il passaggio da una terra perduta e distrutta verso il mondo virtualizzato, quindi anestetizzato, senza tempo, senza vulnerabilità, senza mortalità, senza obiettivo e senza alterità? Anche osservando gli sviluppi politici e sociali in modo più ottimistico, sarebbe comunque un autoinganno classificare la crisi odierna semplicemente entro i tradizionali ricorrenti mutamenti della storia umana.

Perché ciò che finora era considerato ovvio, vale a dire l´esistenza dell’uomo come parte essenziale della terra, come creatura che ha un passato da raccontare e un futuro da sperare, è diventato incerto. Le teologie cristiane non hanno trovato attenzione sincera, perché non ci si voleva rendere conto che il nostro mondo è diventato fragile, privo di risposte immediate e semplici. Siamo infatti in una situazione paragonabile a un circolo vizioso, dove la richiesta di identità sicure si alterna alla delusione per il fatto che esse non hanno portato la sicurezza promessa. Nella ricerca di un nuovo umanesimo, al contrario, si deve rendere nuovamente chiara una linea di fondo del cristianesimo, cioè la sua comprensione del valore della fragilità e della trascendenza che s’incontra nella vulnerabilità della vita. «Ecce homo», dice Gesù (in Gv 19,5 in base all’originale greco non è di Pilato, ma di Gesù l’esclamazione «Ecco l’uomo!») dopo la sua flagellazione dinanzi a Pilato, il rappresentante del mondo potente troppo sicuro di se stesso. Gesù mostra la sua vulnerabilità e la sua compassione con il mondo debole.

Un nuovo umanesimo cristiano è quindi di fronte alla sfida di comprendere e accompagnare le ferite della nostra umanità, di accordare spazio anche a domande che non trovano una risposta diretta. La vocazione del cristianesimo, della Chiesa di oggi consiste nel coltivare uno sguardo misericordioso per le contingenze della vita e per la sua trascendenza, che si trova proprio nella sua apertura verso l’Altro, che allo stesso tempo la rende vulnerabile.

Un nuovo umanesimo cristiano chiede inoltre, come previsto nella Bibbia, una nuova cultura della festa, un’interruzione del circolo totale delle attività economiche del soggetto capitalista odierno. Questo vuol dire rifiutare ogni forma di autocelebrazione (sarebbe la ‘festa’ del proprio potere e della propria superiorità) ma festeggiare la tangibilità, fragilità e creaturalità della vita.

L’abito della festa per un cristiano è ‘Gesù’, e questo vuol dire mettersi una ‘seconda pelle’ di apertura, sensibilità e affettività che ci permette un nuovo sguardo sulla vita e una nuova sensibilità per le voci silenziose, scoperte e sofferenti ancora da raccontare. Nel cristianesimo europeo, di fronte a una migrazione senza precedenti e di fronte a una nuova guerra globale tra islamisti e mondo secolarizzato, questo umanesimo simboleggiato da papa Francesco è l’unica ‘arma’ a disposizione.

1 Commento a “L’azzardo del nuovo umanesimo”

  1. Chiapello d. Biagio
    il

    Un grazie sincero per l’apporto culturale alla ricerca personale e alla testimonianza di fede che, come prete impegnato in parrocchia, sono chiamato ad offrire a chi mi chiede ragione della speranza che è in me. Sono interessato ad una riflessione filosofica e teologica che, spero, possa continuare ad alimentare la mia fede e la mia gioia di essere prete.
    D. Biagio

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