parole dell'umano

Pace

di Adriano Fabris

Gesù è uomo di pace. Certo. Egli annuncia e pratica la pace, la proclama e la realizza. Fino in fondo. Ma dobbiamo intenderci bene su ciò che tutto questo significa. Proprio a partire dalle parole dei Vangeli.

Nel Discorso della montagna Gesù dice che sono beati coloro che operano per la pace. La pace, non il conflitto, è dunque l’orizzonte di riferimento dell’agire cristiano. Ciò non stupisce, naturalmente. Il comandamento dell’amore orienta proprio in questa direzione e chiede, perché l’amore venga attuato davvero, un’ubbidienza radicale: fino a comprendere i nemici.

Il segreto per il compimento pieno dell’essere umano, come individuo e come comunità, sta dunque nell’esperienza e nella promozione di relazioni pacifiche. Ciò significa che alla pace non bisogna rinunciare: neppure di fronte a chi, nei nostri confronti, vuole la guerra. Non possiamo metterci sullo stesso piano di coloro che fomentano i conflitti, non possiamo cadere in questa trappola. Saremmo come loro. E anche se alla fine risultassimo noi i vincitori di questa guerra, sarebbe pur sempre chi l’ha voluta ad avere, in fondo, vinto.

È questa la trappola in cui quotidianamente rischiamo di cadere: quella di rispondere colpo su colpo; quella di essere risucchiati nella spirale di un conflitto che magari non siamo noi ad avere iniziato. È la tentazione in cui le vicende tragiche di questi giorni rischiano di farci incorrere: in conseguenza di una violenza insensata, esercitata falsamente nel nome di una religione. Ma se cediamo a questa idea, perdiamo il diritto a essere felici. Rinunciamo a essere beati come operatori di pace; non siamo più “figli di Dio”.

Ma allora il cristiano dev’essere un debole, un imbelle, una persona che si arrende al primo segnale di violenza? Naturalmente no. Non è questo il significato del “porgi l’altra guancia”.

La pace è frutto della giustizia, come viene più volte ricordato nella Bibbia. E giustizia essa vuole istituire. Per farlo talvolta bisogna anche poter combattere. Infatti non sempre è agevole il cammino che alla giustizia conduce. C’è anzi una durezza delle cose che bisogna saper affrontare e sopportare.

È sempre Gesù a dircelo. Egli stesso porta la spada, la divisione. Al punto che, addirittura, potrà accadere che il figlio sarà separato dal padre, la figlia dalla madre, e che i famigliari saranno come nemici (cfr. Mt 10, 34-36; Lc 12, 49-53). È sempre Gesù, poi, a mostrarlo nella pratica. Come quando caccia i mercanti dal Tempio (Mt 21, 12-17; Mc 11, 15-19; Lc 19, 45-48).

È inevitabile, purtroppo, che in molti casi sia così. Perché il cristiano inquieta; è segno di contraddizione nei confronti di tante situazioni e di tante abitudini consolidate di questo mondo. Che invece devono essere radicalmente messe in questione. Proprio fedeltà alla giustizia. Proprio per l’attuazione della pace.

È questo, dunque, un carattere fondamentale dell’antropologia cristiana: il fatto che il cristiano si trova a vivere in questo mondo pur sapendo di non essere di questo mondo. Ciò comporta una serie di tensioni e di doveri. Fra questi, anzitutto, il compito di realizzare in questo mondo ciò che, in molti casi, esso non riesce a comprendere. Già qui c’è un dissidio. Che può anche provocare reazioni violente. Di cui i martiri cristiani, anche oggi, sono le vittime più evidenti.

Ma c’è anche l’invito, difficile, rischioso, a realizzare la pace in questo contesto di persone che in molti casi, senza sapere ciò che fanno, non la vogliono. C’è il compito di realizzare tutto questo pacificamente. Ma sempre senza rinunciare alla giustizia. Per sé e per tutti gli esseri umani.

Ecco perché l’agire del cristiano, talvolta, può anche essere divisivo. Addirittura violento. Ma sempre per superare ogni conflitto. Anche a rischio della vita. Come Gesù, appunto, ha mostrato.

da Messaggero di sant’Antonio, marzo 2015

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