parole dell'umano

Speranza

di Stefano Biancu

La speranza è scritta nelle carni dell’esistenza: viviamo infatti ogni istante della nostra vita come se non dovessimo morire mai. Essa è però anche e sempre un dono che ci giunge dall’esterno e che domanda un nostro “sì”.

Si tratta di un impegno che è identico per il credente e per il non credente. Anche il credente, infatti, spera contro ogni speranza (cfr. Romani 4,18): anche per il credente, come per ogni uomo, “la morte è veramente morte, e la corruzione emana fetore” (J. Moltmann). Anch’egli vive il conflitto insuperabile con l’esperienza presente del limite e con la congiuntura del momento (cfr. Evangelii Gaudium, nn. 222-225). La speranza richiede dunque al credente – come a ogni uomo – una decisione e un impegno di sé: inevitabilmente a rischio di sé. Il credente si trova confrontato a questo compito esattamente come ogni altro uomo: anche per lui si tratta di decidersi per la speranza.

Chi spera, accetta – con fiducia – l’indisponibilità del tempo. Non soltanto l’indisponibilità che è legata al non sapere che cosa ci accadrà nel futuro, che cosa ne sarà di noi, ma l’indisponibilità del senso stesso del tempo. Chi spera, dice dunque “sì” a un tempo che ha rinunciato a dominare, sia quanto all’insieme delle circostanze (c’è un tempo per ogni cosa, ed esso non dipende da noi), sia quanto al suo senso.

Per vivere sensatamente il tempo finito che egli è, senza cadere nella disperazione di un vano e continuo ripetersi di eventi il cui esito inevitabile è la morte, l’uomo non ha altra via che decidersi eternamente nel tempo per il tempo. Questa è la speranza: è dire un “sì” infinito al tempo finito, rinunciando a volerlo possedere e lasciandosi invece interpellare dai suoi tempi, dal tempo della gioia e da quello della sofferenza, dal tempo della promessa e da quello della sfida.

Che cosa dunque spera la speranza? Per dirlo, non c’è forse modo migliore che ricorrere a un’immagine. Si tratta di un’immagine antica, che ha plasmato l’intera cultura dell’Occidente, a partire da Omero e dai racconti dell’Antico Testamento: i viaggi di Ulisse e il cammino di Israele nel deserto ne costituiscono in qualche modo il modello (l’immaginario greco e quello biblico significativamente la condividono). È l’immagine del ritorno a casa. La speranza – ogni speranza, la più piccola come la più grande – è speranza che la nostra esistenza finita, le nostre azioni grandi o umili, ci riportino a casa: ci consentano di ritrovare la nostra origine, il nostro centro, il nostro fine, la nostra pace, il nostro riposo.

È questo il desiderio più profondo che abita il cuore dell’uomo: abitare la propria casa, stare nel mondo come a casa, in comunione con se stessi, con gli altri, con il mondo, con Dio. Chi spera, acconsente al tempo (a questo tempo), lo sceglie, lo vuole: ritrova in esso – nelle sue promesse e nelle sue sfide – la via del cammino verso casa: verso una più profonda comunione con sé, con gli altri, con il mondo, con Dio. Agli occhi della speranza non è dunque importante soltanto la meta, ma anche il cammino verso di essa: la meta – in qualche modo – è già presente nel cammino. L’eterno è già presente nel tempo.

Se dunque una speranza troppo-umana spera contro il tempo (spera di non morire mai), la speranza umana spera nel tempo. Essa guarda e vive il tempo storico, quotidiano, ripetitivo, dalla prospettiva dell’eterno: come un tempo pieno ma indisponibile, nel quale si annuncia un intero che è già lì, anche se non lo possediamo, né quanto ai suoi contenuti, né quanto al suo senso.

Sperare è, così, dare tempo al tempo, senza precipitazione e senza disperazione. Non è una fuga dal tempo e dalle sue sfide, la speranza: è invece la forma umana dell’abitare il tempo.

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