ragioni dell'umano

Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica

di Stefano Biancu

Da un ascolto non pregiudiziale della cultura del nostro tempo – senza tentazioni egemonizzanti né ripiegamenti narcisistici – alla critica di quei modelli e criteri di giudizio che si rivelano disumanizzanti. Una riflessione sulla crisi della cultura verso il Convegno ecclesiale di Firenze.

Gli anni che ci separano dal Concilio sono anche gli anni in cui la crisi nella cultura è divenuta una realtà ben presente alla coscienza comune. Rispetto a questa crisi, la Chiesa italiana non è stata con le mani in mano e ha anzi messo in campo molte energie e molti sforzi, sui quali vale la pena riflettere, soprattutto in vista del prossimo convegno ecclesiale di Firenze.

A questo fine può tornare utile il volume di Marco Marzano e Nadia Urbinati dal titolo Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica (il Mulino, Bologna 2013): è un volume a tratti molto duro, e talvolta un po’ tranchant. Ma che – proprio perché critico – non va liquidato troppo in fretta.

Nel libro si dedica grande spazio al Progetto culturale della Chiesa italiana, definito come «il più ambizioso tentativo della gerarchia cattolica di riconquistare la sfera pubblica». Ciò che è interessante è che, secondo i due autori, tale ritorno sulla scena pubblica non solo non è «opportuno», ma non è neanche «plausibile»: il cattolicesimo italiano non sarebbe infatti «attrezzato» (p. 12). I motivi sono vari: la frammentazione tra le diverse sigle ecclesiali, un diffuso spiritualismo disinteressato alla mobilitazione politica, un ripiegamento narcisistico legato a una percezione del mondo come luogo pericoloso e inaccessibile, un diffuso sentimento – nei fedeli – di indifferenza e perfino di estraneità rispetto al vertice: sentimento che renderebbe il mondo cattolico italiano sostanzialmente estraneo alle scelte della gerarchia, con il risultato che quest’ultima pretenderebbe di parlare, nello spazio pubblico, a nome di «una base che non incontra mai, dalla quale non ha ricevuto alcun consenso, alcuna delega» (p. 52).

Vorrei soffermarsi su tre critiche in particolare.

La tentazione dell’egemonia

La questione fondamentale, innanzitutto: quella che riguarda il fine proprio della diaconia culturale della Chiesa: edificare una civiltà attraverso i valori del Vangelo o altro?

Sappiamo che l’impegno culturale ecclesiale non può essere altra cosa da un impegno pastorale. Non si tratta insomma di mostrare – apologeticamente – il vantaggio, sotto il profilo storico, sociale, civile… dei valori del Vangelo indipendentemente dalla fede, ma di ascoltare e leggere le forme storiche della cultura in vista di una migliore appropriazione credente del Vangelo: il Vangelo è infatti sempre compreso – in ogni epoca – a partire da un determinato orizzonte culturale. E questo è ciò che accade anche a noi: ci appropriamo del Vangelo a partire dalla cultura nella quale ci troviamo immersi. Chiaramente, rispetto a tale orizzonte culturale di provenienza, il Vangelo produce subito anche un distacco critico, una ripresa interpretante, e diventa dunque inevitabilmente anche denuncia.

In altri termini: non esiste per noi un Vangelo deculturato, dato che lo leggiamo sempre con gli occhi dell’uomo contemporaneo (che noi stessi siamo), ma l’appropriazione credente di questo Vangelo ci mette in condizione – per dirla con Paolo VI – di «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (Evangelii Nuntiandi, n. 19).

Occorre dunque un ascolto non pregiudiziale della cultura del tempo: un ascolto che consenta, al contempo, una maggiore appropriazione credente del Vangelo e una critica, mossa dalla prospettiva della fede, di quei criteri di giudizio, valori, interessi, linee di pensiero, fonti ispiratrici e modelli che si rivelano in contrasto col progetto di Dio e che determinano esiti disumanizzanti.

È chiaro, però, che – affinché questo sia possibile – occorre liberarsi da ogni tentazione di egemonia. La Chiesa è il suo stile: a noi di decidere se vogliamo essere una Chiesa che semplicemente dice cose giuste o piuttosto una Chiesa che è testimone credibile di ciò che dice. Una Chiesa dunque al di sopra di ogni sospetto circa sue possibili velleità egemoniche. Solo così saremo credibili quando diciamo che ogni esperienza e ogni istituzione umana sono attraversate da una profondità religiosa, persa la quale ne va dell’umanità stessa dell’uomo.

Il ripiegamento narcisistico

Chiarita la questione di fondo, e cioè che l’impegno culturale non può essere uno strumento di lotta per l’egemonia ma deve invece essere un impegno pastorale ispirato al metodo dell’ascolto in vista di una sempre maggiore appropriazione credente del Vangelo (la quale avrà poi delle ricadute anche di tipo civile), passo alla tesi di Marzano e Urbinati secondo la quale il cattolicesimo italiano non sarebbe attrezzato per un nuovo ingresso nella scena pubblica: in primo luogo a causa di un ripiegamento narcisistico e, in secondo luogo, a causa di una sovraesposizione pubblica di gerarchie ecclesiastiche non rappresentative del popolo cristiano.

La questione del narcisismo, innanzitutto. In epoche di crisi e di transizione come la nostra, l’antico si presenta come una ricchezza alla quale attingere nella ricerca di punti di riferimento e di un orientamento. Eppure non possiamo dimenticare che l’antico può rappresentare – oltre che una ricchezza – anche una tentazione (cf. S. Biancu, L’antico come ricchezza (e come tentazione), in Id., La vita come riposo, Cittadella, Assisi 2009, pp. 42-46): una via di fuga spiritualistica e gnostica rispetto alle sfide che ci attendono. Appunto un ripiegamento narcisistico. Le polemiche che hanno accompagnato il cinquantenario del Concilio Vaticano II ne sono un esempio eclatante: lo sforzo legittimo di leggerlo in una ermeneutica della continuità tradisce, presso alcuni autori, un malcelato desiderio di disattivare la portata rinnovatrice di quello che è stato un grande progetto culturale. Certo, il Concilio non ha detto tutto e il nostro compito di elaborazione teorica non è dunque oggi esaurito. Ma ha indicato – con grande lucidità – un metodo: il metodo dell’ascolto e dell’attenzione ai segni dei tempi. Ha così voluto uscire dallo schema delle definizioni preliminari: ha ritenuto non utile e perfino dannoso definire noi e l’altro, l’altro in rapporto a noi e noi in rapporto all’altro.

I pastori senza l’odore del gregge

L’ultimo punto: quello che riguarda la critica secondo la quale i nostri Pastori pretenderebbero di avere diritto di parola nello spazio pubblico in quanto rappresentanti di un popolo che però, in buona sostanza, non incontrano mai. E che dunque non conoscono affatto.

È naturale per noi leggere questa critica avendo nelle orecchie e nel cuore le parole di papa Francesco contro i pastori che non hanno «l’odore del gregge». Ci risulta dunque difficile affermare che si tratta di una critica ingiusta e del tutto gratuita.

Nell’ambito che a noi interessa – quello dell’impegno culturale della Chiesa – questa distanza tra pastori e gregge produce, tra le altre cose, una forma di “strabismo” (G. Angelini). Si tratta di un credito indebito che – da parte ecclesiastica – si tende ad accordare alle forme dell’opinione pubblica, intesa quale sapere pubblico prodotto dai vari opinion leader. Se la mediazione degli intellettuali è sempre necessaria, nella misura in cui porta a parola riflessa la cultura dell’epoca storica, bisogna anche dire che la loro mediazione non è sufficiente, essendo sempre parziale (e talvolta non disinteressata). Ascoltare gli opinion leader e pretendere di conoscere la realtà attraverso le loro riletture dell’epoca presente, avendo rimosso ogni rapporto col gregge, produce – per dirla con un titolo famoso di Julien Benda – un doppio “tradimento dei chierici”: il tradimento degli intellettuali, che mantengono un aggancio molto precario alla vita reale (e quasi nullo alla vita cristiana), ma anche il tradimento degli ecclesiastici, che fondano sulle analisi di quegli intellettuali la loro conoscenza di un popolo col quale hanno rimosso ogni rapporto vitale.

Si tratta, per dirla in termini classici, di una delle piaghe della Chiesa: quella del clericalismo, il quale sovverte completamente le priorità e trasforma il servizio in separazione e potere e il corpo (di Cristo) in un luogo di scontro tra corporazioni (clericali, laicali…).

Un’icona biblica

Chiudo con un’immagine biblica (cfr. Giona 1,1-5). È tempo di alzarsi e di andare a Ninive, la grande città: di mettersi in ascolto dei suoi drammi e delle sue speranze, i quali sono anche i nostri drammi e le nostre speranze. Ninive ci darà gli strumenti per leggere e comprendere ciò che oggi il Vangelo ci dice, consentendogli di trasformarci. Trasformati e conformati al Vangelo, saremo anche giudicati da esso in quanto uomini della nostra epoca, solidali con le donne e gli uomini della nostra epoca. Ma questo farà di noi, agli occhi di Ninive, dei testimoni, i quali non solo dicono cose giuste, ma pure le vivono: senza reticenze e senza ipocrisie.

Da questo dipende il fatto che formule come «impegno culturale» o «progetto culturale» siano per noi soltanto degli slogan salottieri o se abbiano invece un contenuto preciso e reale, che ci provoca, ci impegna e ci giudica.

* Una versione più estesa e approfondita di questo scritto è apparsa, con il titolo ‘Dall’ombelico alla città’, su Coscienza 6 (2013), 9-15 (disponibile online:www.meic.net/allegati/files/2014/05/28251.pdf).

» Fonte: il Regno, 2015

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