rassegna stampa

«Liberi di giocare in attacco» 

a cura di Matteo Liut

Dopo Firenze, parlano i giovani protagonisti al Convegno

Anche i giovani al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze hanno fatto sentire la loro voce e si sono messi in gioco per costruire quell’umanesimo nuovo che la Chiesa italiana si è posta come orizzonte. Negli oltre 200 tavoli di dieci persone nei quali si è dipanata la discussione cinque, uno per ogni via, erano composti solo da giovani tra i 20 e i 30 anni. Altri loro coetanei erano presenti in mezzo ai restanti gruppi. Al termine le attese e i desideri più profondi delle nuove generazioni sono state messe nero su bianco in una lettera rivolta a tutti i delegati. Il messaggio è chiaro: «Metteteci alla prova, anche se potremmo sbagliare e incassare qualche sconfitta», scrivono i giovani. E se non bastasse ecco la piena disponibilità a far parte della «Chiesa in uscita»: «Siamo qui – si legge nella lettera – per rinnovare con umiltà e fierezza la nostra disponibilità a scendere dalle gradinate dello stadio e giocare la partita in attacco». In questa pagina i racconti di 5 giovani che hanno partecipato al Convegno e si sono fatti portavoce dei loro coetanei.

Uscire. Oltre gli schemi con l’audacia del Vangelo 

Mi è stato chiesto di partecipare al Convegno ecclesiale azionale di Firenze e la mia risposta è stata «sì».

Un «sì» pieno di gioia ed entusiasmo. Solo dopo diversi incontri e una più approfondita analisi delle tematiche che si sarebbero affrontata mi sono chiesta: «Ma quale potrà essere il mio contributo? Il contributo di una ragazza che vive la Chiesa nella sua parrocchia, con semplicità e umiltà, con grandi speranze, sì, ma anche con tante paure, limiti e fragilità?». Con questo interrogativo nel cuore sono partita, portando nel mio bagaglio poche esperienze, ma tante attese. Il Convegno non le ha deluse.

Il Papa, nel suo discorso introduttivo, tenuto nel duomo di Santa Maria del Fiore, ha detto: «Faccio appello soprattutto a voi giovani, perché siete forti. Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate a essere modelli nel parlare e nell’agire». In quel momento, con quelle parole, ho sentito che il Pontefice parlava anche a me.

Ho avuto la fortuna di ritrovarmi in un gruppo di dieci ragazzi, più o meno della mia stessa età, tra i venti e i venticinque anni. Ci siamo interrogati sul significato di una «Chiesa in uscita», pronta ad accogliere, dialogare ma mai negoziare. Abbiamo riflettuto sulle molte contraddizioni delle nostre comunità, spesso pronte a giudicare chi prova a sperimentare sulla propria pelle l’uscire. Uscire talvolta dagli schemi, sporcandoci le mani, mettendoci la faccia. Abbiamo messo insieme le nostre idee, abbiamo fatto diventare progetti le nostre speranze, con la promessa di riportare, ciascuno nella propria realtà, le proposte emerse, con la passione e l’inquietudine che ci caratterizza. Questo sarà il nostro impegno: vivere ogni giorno, con umiltà, disinteresse e gioia, l’audacia del Vangelo.

Maria Francesca Simeoni

Abitare. Essere con Gesù testimoni attivi nella città 

Ripenso a questo Convegno ecclesiale come a un dono che il Signore ha fatto a ciascuno di noi e alle comunità del nostro Paese, ma anche come a un segno del Suo amore, che guida la Chiesa, che ci ha convocati e fatto sperimentare il «piacere spirituale di essere popolo» unito intorno a lui. Nelle parole di papa Francesco, in particolare quelle che ha condiviso con noi martedì mattina in Santa Maria del Fiore, ho percepito il soffio dello Spirito che Gesù ci dona anche oggi – come agli Apostoli a Pentecoste – per insegnarci ad abitare questo tempo secondo il suo stile: chiama noi, suo popolo, a essere «buon Samaritano» nel cammino della storia, secondo questa bella immagine che ci consegnava già il Concilio e che ci ha ricordato il Papa nell’omelia della Messa allo stadio. «Abitare», appunto, è stata la «via» che ho cercato di esplorare nei lavori di gruppo, assieme ad altri miei coetanei, in un clima di grande libertà, e trovandoci subito in sintonia. Tra le proposte che abbiamo portato all’attenzione del nostro gruppo, una mi sta particolarmente a cuore: ridestare nei cristiani la consapevolezza di essere parte attiva nella vita della città, promuovendo l’inserimento e la strutturazione nella catechesi e nella pastorale ordinaria dei temi della Dottrina sociale della Chiesa, perché «abitare» significa stare con Gesù nella città e riscoprire nell’incontro con Lui la sorgente e il compimento del nostro impegno di trasformare secondo la legge dell’amore le strutture sociali, economiche e politiche del nostro tempo. Forse è un sogno, ma a noi giovani piace sognare, consapevoli che – come ci ricorda il beato Paolo VI – quando parliamo di «civiltà dell’amore» non sogniamo, perché gli ideali, se autentici, se umani, non sono sogni: sono doveri. Per noi cristiani, specialmente.

Marco Rovere

Annunciare. La Parola con il gusto dell’incontro 

Gratitudine è il sentimento con cui torno da questo Convegno in cui abbiamo sperimentato una Bellezza straordinaria ma fatta per l’ordinario, non più contenibile. E questa ha una origine precisa che deriva dall’essersi messi, personalmente e come Chiesa, di fronte alla domanda: «Ma voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15) accettando di essere in cammino, di averbisogno di convertire i cuori. Dall’invito del Pontefice a non addomesticare la potenza misericordiosa del volto di Cristo e a essere prima di tutto consapevoli dell’Amore che il Padre ha per noi, sgorga la voglia di andare incontro all’uomo: a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo, per stare loro accanto e per un annuncio che non scade nel proselitismo ma propone una vita così abbondante da inghiottire anche il peccato, un vita che ha gusto perché libera per servire.

Nell’ambito dei lavori di gruppo sono emerse proposte concrete per dare spessore alla nostra esperienza di sequela di Cristo. Si è sottolineato in particolare l’importanza di rigettare un atteggiamento autoreferenziale nell’annuncio che fa fatica a fare rete con le realtà sul territorio dentro e fuori la Chiesa, che si preoccupa più di etichettare il prossimo che di portare Cristo e accogliere il fratello. L’annuncio deve essere naturalmente gioioso e coinvolgente, adatto nello stile e nei linguaggi all’età, condotto dove i giovani vivono (ad esempio l’Università, luogo di frontiera troppo spesso lasciato a se stesso), fatto di accompagnamento ordinario e ascolto, pazienza e gradualità, fraternità.

C’è bisogno di ripensare percorsi formativi per l’uomo: fatti di educazione alla preghiera, carità, familiarità con la Parola. Questi giorni sono stati una grande sfida, un raccogliere la provocazione di Cristo che ci dice: lascia la tua misura, usa la mia e guarda se la tua vita fiorisce.

Marco Tellini

Educare. Aperti al dialogo autentico per rendere la vita capace di dono 

Per definizione, il balcone è un luogo elevato e protetto. Non si vive su un balcone. Tutt’al più si osserva dal balcone. Si osserva il cielo, sognando. Si osserva la vita degli altri. Ma si osserva dall’alto, senza umiltà. E osservare non èvivere, ma custodire la vita. «Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni». Con queste parole papa Francesco a noi giovani – delegati e non – esortandoci a essere i primi in uscita, per una «Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze», al proprio balcone. E nei cinque giorni a Firenze ci abbiamo provato noi giovani a immergerci nel dialogo: tra di noi, nel tavolo «giovani» della via dell’educare; con gli adulti, nella condivisione nel gruppo di cento. Un’esperienza di vera sinodalità, attraverso la quale tracciare le buone prassi per l’educare oggi, che è tirare la vita da dentro, rendendola capace di dono, di responsabilità, senza fare degli oratori dei parcheggi, ma delle sorgenti da cui trarre linfa per rendere vitali gli ambiti della vita (città, università, lavoro, sport), nello stile di relazioni autentiche, in dialogo attivo, fino a raggiungere, abitandoli e trasfigurandoli, ferite e limiti umani, annunciando possibili «rialzate» che non compromettono con giudizio, ma fanno emergere, col linguaggio universale dell’amore, l’immagine del pienamente umano impressa da Dio per immettersi sulle vie del mondo.

Ilaria Quarta

Trasfigurare. Uno sguardo sognatore ma concreto 

Dopo mesi di preparazione e giorni molto intensi di ascolto, riflessione, confronto e vita comune, si torna a casa da Firenze, chiamati a vivere l’umanesimo cristiano nella concretezza delle nostre parrocchie e delle nostre città. Papa Francesco segna in modo chiaro la strada da percorrere, pur invitando ogni comunità a un discernimento sinodale. È quella di «avviare un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici». Francesco ci indica lo stile con cui fare questo: il dialogo e il confronto, all’interno della Chiesa e con il mondo, come si è sperimentato ai «tavoli da dieci» dove giovani e adulti, laici, sacerdoti e vescovi, sono stati chiamati a confrontarsi e ascoltarsi. Rendere concrete le indicazioni dell’Evangelii

gaudium per la realtà ecclesiale e sociale di oggi, vuol dire andare incontro all’uomo del nostro tempo, laddove vive quotidianamente, per essere una Chiesa «inquieta, sempre più vicina ai dimenticati, agli imperfetti».

E come giovani possiamo essere questo volto lieto, sognatore ma concreto di una Chiesa che si fa prossima a tutti. Lo possiamo essere se sapremo essere critici ma costruttivi, con lo sguardo verso il futuro ma senza dimenticare le urgenze dell’oggi, protagonisti ma senza mai smarrire il valore del dialogo tra le generazioni. La via del trasfigurare è la sintesi di tutte le altre vie, perché il Vangelo se davvero è accolto nella nostra vita, se ne incontra le pieghe più vere, trasfigura la nostra esistenza come anche le relazioni che viviamo a livello personale e sociale per renderci compagni di strada di tutti, innanzitutto dei poveri. Per fare ciò occorre prima convertire il nostro cuore e il nostro modo di pensare per poi cambiare le strutture e le prassi pastorali.

Michele Tridente

da Avvenire, 18 novembre 2015
Foto Mariangela Montanari

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